Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Politica & Istituzioni

Ma si può far soldi scherzando sulla Mongolia?

di Franco Bomprezzi

Non ci volevo credere. Poi ho visto. Una collezione di magliette “spiritose” di una azienda che produce e commercializza, anche on line. Nella collezione 2013 brilla questa perla: “Pensavo avesse meno abitanti la MONGOLIA!” . Proprio così, con Mongolia scritto con le maiuscole, e persino sottolineato, qualora non si fosse capita l’allusione. La bella t-shirt, caratteri neri ben leggibili anche da ipovedenti, su fondo bianco, è in vendita a trenta euro. Le altre perle della collezione sono peraltro tutte di grande livello intellettuale e umoristico: “Mi vuoi morta?! Fai la fila…”, oppure “Mi innamoro ogni 5 minuti (circa)”. Abbigliamento destinato ai giovani in versione movida, presumo. Si sono accorti di questa meraviglia due genitori di un ragazzo con sindrome di Down. L’hanno vista in vetrina, in un negozio di Concesio, nel bresciano. Allibiti, hanno chiesto spiegazioni. La commessa, incolpevole, non sapeva che dire. Loro invece sì.

Ora c’è una petizione on line per chiedere alla ditta di togliere la maglietta dalla sua collezione e ai commercianti di non inserirla negli assortimenti in vendita. L’Anffas di Brescia annuncia battaglia, e stigmatizza duramente l’episodio. Ma al momento la cosa che mi stupisce è che questa storia sia emersa così, solo per l’occhio attento di due genitori. Non so quante di queste magliette siano già state vendute. Mi piacerebbe conoscere soprattutto le motivazioni che hanno spinto a comprarla, a sceglierla rispetto alle altre, a spendere 30 euro per indossare questo esempio di autentica idiozia (senza offesa per gli idioti, naturalmente). Ci sarà pure qualcuno che in questo momento, ragazzo o ragazza, si è infilato la t-shirt, si è guardato allo specchio, ha riso soddisfatto ed è uscito di casa convinto di far ridere gli amici.

Il fatto è che tra i ragazzi il termine “mongolo” è di uso comune, spesso addirittura in senso autoironico. A scuola ti dai da solo del “mongolo” se non capisci una spiegazione o sbagli un calcolo o fai un errore di grammatica. E’ uno scivolamento semantico, sembra più lieve di “mongoloide”. Chissà. E poi, magari, non lo si usa certo rivolgendosi al compagno di classe con sindrome di Down. Lui no, non se lo merita di sentirsi dare del “mongolo”. Sono le contraddizioni del modo di comunicare in gergo, l’uso di parole che facciano comunità, o comunella, senza pensare, senza riflettere. Ma se fra i ragazzi tutto questo è solo frutto di disattenzione, di ordinaria cattiva educazione, la scelta di un’azienda di produrre una maglietta con una scritta, neppure divertente, come questa, è tutt’altra cosa. Possibile che a nessuno sia passato per la testa che una t-shirt cosiffatta avrebbe inevitabilmente offeso soprattutto i genitori, che si battono ogni giorno, tra mille fatiche, per uscire dal luogo comune, dall’emarginazione, dallo scherno, dalla derisione, per una caratteristica genetica che ha il torto di apparire esteticamente visibile, a differenza di qualsiasi altra forma di deficit fisico o intellettivo? Possibile, certo. Ma spero che adesso, rendendosi conto dell’errore, facciano subito un passo indietro, si scusino pubblicamente, ritirino la maglietta. Magari imparino qualcosa, e si diano da fare per diffondere, anche con le t-shirt, una cultura migliore. In Italia e in Mongolia.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA