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Donne e icone di Steve McCurry a Forlì

di Nawart Press

“La foto di un ragazzo nelle strade della Nuova Guinea con un osso nel naso è interessante da guardare. Ma una buona foto è quella che riesce a comunicarti cosa significa vivere con un osso che ti attraversa il naso. Per rivelare una parte profonda della condizione umana”. Così raccontava in un’intervista del 2013 Steve Maccurry, uno dei fotografi più celebri e ammirati del nostro secolo.

Nell’era del selfie e del tablet, tutti possono raccontare la storia umana secondo la propria lente, il proprio occhio e la propria sensibilità. Dallo scoppio delle primavere arabe ci siamo abituati sempre di più a vedere immagini catturate con telefonini e smart-phone da testimoni oculari. All News Channels, social networks, internet, per non parlare del mondo vero, quello fuori dalla rete, in cui i panorami urbani sono invasi da una sfilza di cartelloni pubblicitari.

Ma nonostante la nostra assuefazione all’immagine, alcune di queste si sono radicate nel nostro inconscio collettivo, nella visione collettiva di un preciso attimo storico.

Una di queste immagini è la famosa copertina del National Geographic del 1985, la ragazza afghana nel campo profughi di Peshawar in Pakistan. Ognuno di noi è rimasto profondamente toccato, turbato, incantato dal ritratto di una giovane ragazza afghana scappata dai bombardamenti in cui aveva perso tutta la sua famiglia. Gli occhi di quella ragazza hanno turbato collettivamente il mondo occidentale. In un’intervista, Steve Mccurry, il fotografo che l’aveva immortalata, raccontava che con quella foto, tantissime persone avevano cercato di contattarlo e si erano mobilitate per sapere come dare una mano ai bambini che vivevano nei campi profughi in Pakistan.

Queste reazioni di umanità collettiva continuano a esplodere. L’immagine del piccolo Aylan, morto a soli tre anni sulle coste greche, non ci ha messo al corrente di un disastro umanitario che già conoscevamo, volenti o no. No. Quell’immagine ci ha indignato, ci ha fatto tremare al pensiero “e se fosse stato mio fratello, mio figlio, mio nipote”. Ha scosso il nostro tram tram quotidiano, e nonostante le varie polemiche che ne sono uscite, il risultato è che sempre più persone, cittadini come tutti noi, hanno deciso di non chiudere gli occhi un’altra volta. E di unirsi ai tanti che già da tempo si erano organizzati per dare una mano sulle coste greche, ai confini croati, nelle stazioni tedesche e italiane, ai rifugiati in fuga dalla guerra.

Sono immagini che hanno scalfito un pizzico di umanità e che hanno aiutato a sentirla più collettiva.

Nella mostra aperta fino al 10 gennaio a Forlì nel museo San Domenico, sono esposti i ritratti di Steve McCurry. È l’ottava di una serie dedicata a McCurry. “L’intenzione, come ogni volta, è di porre l’accento sui diritti civili, su quello che nel mondo sta succedendo e sulla condizione della donna, con personaggi noti come appunto Aung San Suu Kyi e fotografie di denuncia che sottolineano i principi della dignità e del rispetto verso qualunque esponente del genere umano e più in particolare nei confronti dell’universo femminile qualunque sia la latitudine, la razza e la condizione sociale. Valori non negoziabili, da affermare con determinazione, come ci insegnano gli sguardi colti dall’inconfondibile genio di McCurry” spiega in un’intervista per Forlitoday, Biba Giacchetti, amica di McCurry e curatrice della mostra.

Icons and Women, come evocato dal titolo, si tratta dell’esposizione di 180 fotografie che seguono due filoni, dalle immagini di guerre a quelle dei viaggi del fotoreporter in Afghanistan, Birmania, India, Tibet, Cina intrecciate da un mondo tutto al femminile. Dal Sharbat Gula, la “ragazza afgana” as Aung San Suu Kyi, i ritratti esposti parlano dell’attualità attraverso i visi femminili delle sue protagoniste.


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