Attivismo civico & Terzo settore

Terra terra: il valore dei saperi che stanno in basso

di Tiziana Ciampolini

Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria (Il Barone Rampante, Italo Calvino)

Mentre scoppia la crisi politica nel momento peggiore possibile, mentre il nostro Paese lotta per arginare la pandemia di Coronavirus e uscire dal pantano economico, vorrei portare l’attenzione su un tema apparentemente marginale: il valore dei saperi delle comunità per rigenerare le risorse locali. Sotto questo tema si annida, la condizione per la ricostruzione della democrazia che è ormai in ritirata da tempo. Secondo il parere di alcuni autori americani, il tema è fortemente interconnesso con il rapporto tra la politica, le politiche e la sfera politica.

In inglese è tutto più semplice, i termini sono due non tre: politics e policy.

La politics è quella che spesso appare deficitaria ma è la base per la costruzione di quella che noi italiani chiamiamo la sfera politica che rappresenta l'architettura del convivere (cit. Luca Alici), quindi struttura di cui non possiamo fare a meno.

Le policies nascono da quella che chiamiamo la politica dal basso, quella che si prende la responsabilità di trovare soluzioni per cambiare le cose. Quella politica è indispensabile ma senza la prima, le sue soluzioni rimangono soffocate in un angusto localismo.

Per capire se ci sono veramente queste interconnessioni tra comunità, politica e politiche propongo qualche osservazione:

1. Durante le emergenze che hanno sfiancato l’Europa nel 2020, le soluzioni proposte dalle comunità locali per fronteggiare la crisi, sono state molto valorizzate dai giornali, forse al pari di quelle proposte dallo Stato e il Mercato: infatti sono le comunità locali che hanno raccolto vestiario per i profughi abbandonati al gelo in Bosnia Herzegovina, sono le comunità locali che si sono organizzate per fare la spesa ai malati nel primo lockdown, sono le comunità locali che hanno realizzato corsi di alfabetizzazione informatica per anziani. Le reti trovano soluzioni innovative se fanno esperienze che nutrono visioni, se affinano competenze di analisi, ma soprattutto se sanno organizzarsi. Tutte e tre le dimensioni sono importanti ma la differenza la fa la capacità di organizzazione. Se tutta questa valorizzazione è nuova in Italia, il tema – oltreoceano – è attenzionato da tempo da politologi ed economisti che hanno esplorato dettagliatamente il modo in cui le comunità locali implementano soluzioni che nascono dal basso, interessandosi più alle policies che alla politics.

2. E’ la letteratura neoistituzionalista americana quella che pone l’accento sugli aspetti micro e non formali delle decisioni che risolvono problemi cruciali nelle comunità. Il nostro modello, statocentrico, è più attento alle misure formali introdotte dai governi e dalle pubbliche amministrazioni e non osserva con altrettanta attenzione le iniziative che nascono dal basso. Privilegia le soluzioni che sanno interloquire con i grandi stakeholders e non quelle degli attori locali. La conseguenza è che i territori si indeboliscono e hanno come unica possibilità quella di risolvere problemi attraverso le strategie, le priorità e i mezzi messi a disposizione dai soggetti che dispongono di risorse economiche per gli investimenti locali.

3. Propongo questo spostamento di sguardo dalle crisi attuale perché temo che a forza di spremere le comunità senza nutrirle si prosciughino le loro energie positive e non riescano a rigenerare proprio le risorse che serviranno per le crisi e gli shock che ancora e ancora arriveranno. Credo per questo che sia importante supportare le reti locali facilitandole per organizzare meglio le risorse che hanno a disposizione. E’ attraverso questa maggiore consapevolezza che possono apprendere come e dove procurarsi quelle che mancano.

4. Questo tema è cruciale per due esponenti di spicco della corrente neo-istituzionalista: i coniugi Elinor e Vincent Ostrom, due politologi statunitensi secondo i quali la democrazia è un processo sperimentale, fatto di innovativi casi pilota capaci di allestire una società su nuove basi. Il ruolo delle istituzioni democratiche è secondo loro, quello di sostenere l’azione delle comunità locali che sanno risolvere i problemi comuni. Gli Ostrom spiazzano perché non guardano all’homo economicus, osservano invece con interesse i soggetti che agiscono, apprendono ed elaborano per modificare il proprio contesto a partire dalla gestione delle risorse comuni. Guardano ai changemakers che apprendono in situazioni cooperative e decidono di volta in volta i modi più pertinenti per ripetere ciò che è in grado di trasformare un contesto per rigenerare le risorse. Una nota a margine: è piuttosto curioso che in questo caso si parli solo di lei, Elinor. Complice è il fatto che lei (donna, politologia e non economista, ricercatrice su temi di confine tra la politologie e l’economia) ha vinto il premio Nobel per l'Economia nel 2009, poco dopo l'incendio globale acceso dalla prima crisi economica. Di lui, Vincent, non si conosce quasi l’esistenza. Eppure la coppia visse una vita in simbiosi, tra ricerca teorica e sul campo, e fu lui a costruire il loro impianto concettuale (morirono insieme, a pochi giorni di distanza, nel 2012).

5. Uno dei fondamenti del pensiero degli Ostrom è il metodo che costruirono per analizzare i contesti locali, lo IAD (Institutional Analysis and Development): il primo step sta nel riconoscere le regole sociali, culturali e ambientali con cui agisce una comunità che gestisce risorse comuni scarse. Elinor Ostrom, proprio grazie allo IAD – metodo di macroanalisi dei contesti – vinse il Premio Nobel per l’Economia nel 2009: con sue ricerche sui commons, dimostrò il valore della governance policentrica nella generazione di risorse comuni per una comunità. Lo IAD (e gli strumenti nati da lì in poi), allena quell’occhio ad osservare le questioni giuste per comprendere come è organizzato un sistema territoriale. E’ uno strumento strategico per le istituzioni, per fare scelte che portano ad impiegare bene le risorse.

6. E’ vitale che i territori siano puntellati di sistemi istituzionali capaci di riconoscere, valorizzare e investire risorse sullo sviluppo dei saperi delle reti locali. Senza questi snodi le risorse locali saranno solo usate, spremute e modellate per le esigenze del mercato e delle emergenze e mai rigenerate. Le fondazioni di comunità sono un bell’esempio in questo senso.

7. Nella ricerca degli Ostrom sui commons c’è una importante lezione di metodo per la ricostruzione dei processi democratici (che qui rischio di banalizzare ma provo a semplificare): nelle aree più marginali, minoritarie e vulnerabili, risiede una forza che permette alla democrazia di prendere una forma nuova e di rigenerarsi in continuazione. Le regole attraverso cui questa forza si struttura non sono sempre uguali. Ascoltare le comunità, spendere del tempo per comprendere il loro lessico, le loro regole, la loro cultura è una condizione per passare dai progetti, alle pratiche, dalle pratiche ai programmi, dai programmi alle policies replicabili. Solo le policies, secondo gli Ostrom, possono nutrire la politics di nuovi contenuti e di nuove prospettive, permettendo alla politica di spostarsi dalla lotta per il potere alla lotta per il cambiamento.

E’ interessante come loro facciano discendere questo passaggio prevalentemente dalle funzioni organizzative delle risorse. La chiave di volta sta nel modo in cui gestire le risorse esistenti, come organizzare il reperimento delle risorse mancanti e come organizzare la partecipazione.

8. Le scienze organizzative vengono considerate le figlie minori nella scienza politica e in quella economia: è famosa in questo senso la diatriba interna all’economia tra l’economia pura e il management. Invece secondo gli Ostrom bisogna mettere le mani in pasta nelle comunità locali per mettere a terra (Fabrizio Barca docet) interventi più ampi in grado di far ripartire la democrazia di un Paese.

Dalla prossima puntata proveremo a raccontare un’esperienza per vedere se questa ipotesi può essere vera.


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