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Enti religiosi e Riforma del Terzo Settore

di Alessandro Mazzullo

Dopo l’entrata in vigore (3 agosto 2017) del Codice del Terzo Settore (CTS)[1], la domanda ricorrente è:

<<Che dobbiamo fare adesso?>>.

Se (ce) lo chiedono in tanti e la risposta è tendenzialmente sempre la stessa:

<<Dipende!>>.

Perché valutare l’impatto della Riforma non è una cosa semplice. È spesso necessaria una vera e propria attività di due diligence che tenga insieme esigenze di governance, peculiarità della mission, caratteristiche delle principali fonti o attività di finanziamento, agevolazioni introdotte, rimaste, abrogate, ecc.

Tra i primi enti a chiederselo vi sono gli enti religiosi che rappresentano una parte così importante, nell’architrave del Terzo Settore, quanto meno italiano.

Ed il nuovo Codice, in effetti, riserva loro un trattamento speciale.

L’art. 4, comma 3, del nuovo Cts, ad esempio, consente loro, a determinate condizioni, di derogare alle norme civilistiche espressamente stabilite per gli altri enti. Si pensi, ad es, al principio di democraticità interna, incompatibile con l’ordinamento canonico di molte confessioni religiose, necessariamente organizzate su base gerarchica.

Il Cts, in questo caso, parla di enti religiosi civilmente riconosciuti. Con tale denominazione soggettiva[2], ci si riferisce non solo agli enti “ecclesiastici civilmente riconosciuti[3], ma a qualsiasi ente, con riconoscimento della personalità giuridica, ancorché appartenente a confessioni religiose prive di patti e accordi.

Ciò non toglie che anche enti religiosi, privi di riconosicmento civilistico, siano interessati alla suddetta Riforma, in quanto parte integrante del Terzo Settore.

Pertanto, tornando alla domanda da cui siam partiti, cosa conviene che facciano gli enti religiosi rispetto alle importanti modifiche introdotte dal CTS? E’ conveniente iscriversi al registro unico nazionale del Terzo Settore?

Come si diceva prima, la risposta dipende da tanti fattori.

Tra i vantaggi/svantaggi, lo ricordiamo, non vi sono solo quelli di natura fiscale. Ad esempio, è probabile che l’etichetta di ETS sarà sempre più importante nei rapporti con la pubblica amministrazione o con i propri donors privati.

Rispetto alle valutazioni di natura fiscale, può esser utile partire da alcune considerazioni esemplificative.

Agli enti religiosi, che acquistino la qualifica di ETS, non si applicherà la riduzione dell’IRES di cui all’art. 6 del dpr 601 del 1973[4], né gli artt. 143, 148, 145 e 149 del Tuir[5].

Tuttavia, la medesima qualifica potrebbe esser fondamentale nel caso si volesse usufruire del c.d. Social bonus[6] o delle altre agevolazioni legate alle liberalità ricevute[7]. Altrettanto importanti sono le agevolazioni previste dall’art. 18 per l’impresa sociale[8]. Interessante potrebbe essere il regime forfettario previsto dagli artt. 80 e 86 del Cts. Non meno importante è considerare come, a partire dal momento indicato dall’art. 104, comma 2[9], scompariranno le Onlus e, con esse, le agevolazioni ad esse connesse.

Un’attenzione su tutte, e per tutti, occorrerà averla in relazione alla possibile perdita della qualifica di ente non commerciale, con le significative conseguenze che ne deriverebbero[10]. Prima della riforma, erano ancora leciti dei dubbi, nonostante l’interpretazione dell'art. 149 del Tuir, assunta dal Governo italiano e dalla Commissione europea, con la Decisione del 19 dicembre 2012, in materia di aiuti di Stato. Dopo la Riforma, per gli enti che dovessero acquisire la qualifica di ETS, ogni dubbio è fugato dalla esplicita disapplicazione dell’art. 149, comma 4, del Tuir[11]. Anche un religioso, che acquisiti la qualifica di ETS, potrebbe essere inquadrato come commerciale, laddove ricavi i propri proventi soprattutto da attività commerciali[12].

Cosa fare, allora?

Cominciare a studiare, già adesso, vantaggi e svantaggi; opportunità e criticità, in base alle proprie specificità ed esigenze.


[1] Per un approfondimento scientifico della tematica, sia consentito il rinvio ad A. Mazzullo, L’inquadramento degli enti religiosi nella Riforma del Terzo settore, in “il fisco”, Ipsoa, n. 47 del 2017. Per un approfondimento della Riforma del Terzo Settore, sia consentito il rinvio ad A. Mazzullo, Il nuovo Codice del Terzo Settore. Profili civilistici e tributari, Giappichelli, 2017.

[2] Cui rinviano spesso altre norme del codice. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo: all’art. 89, commi 3 e 5.

[3] Com’era nell’iniziale schema di decreto presentato in Parlamento dal Governo. Sulla modifica deve aver senz’altro inciso il Parere del Consiglio di Stato che criticava la possibile discriminazione delle confessioni non aventi patti, convenzioni o concordati con lo Stato. Sui dubbi relativi alla fondatezza di tale rilievo, sia consentito il rinvio ad A. Mazzullo, L’inquadramento degli enti religiosi nella Riforma del Terzo settore, in “il fisco”, Ipsoa, n. 47 del 2017.

[4] Ma, nel caso degli enti di cui all’art. 4, comma 3, la riduzione continua ad applicarsi limitatamente alle attività diverse di cui all’art. 6. Cfr. l’art. 89, comma 5.

[5] Vedi sempre l’art. 89, commi 1,3 e 4.

[6] Si pensi ad un ente religioso che voglia acquisire e ristrutturare, attraverso donazioni private, un immobile confiscato alla mafia o pubblico e dismesso. Vedi l’art. 81.

[7] Vedi l’art. 83.

[8] Si pensi, in particolare, alla totale non imponibilità degli utili destinati a riserva.

[9] Vedi l’art. 102, comma 2.

[10] Vedi A. Mazzullo, Il reddito d’impresa dei nuovi enti del Terzo settore, in “il fisco”, Ipsoa, n. 40 del 2017.

[11] Di cui all’art. 89, comma 1, lett. a).

[12] Sul punto, tuttavia, cfr. A. Mazzullo, L’inquadramento degli enti religiosi nella Riforma del Terzo settore, op. cit.; Id, La qualifica fiscale degli enti ecclesiastici tra diritto interno ed europeo, in “il fisco”, Ipsoa, n. 9 del 2015.


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