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Benedetta o maledetta solitudine?

di Maria Laura Conte

“Come molti stanno scoprendo in questi giorni, la solitudine sa essere allo stesso tempo una benedizione e una maledizione”: non è di un romanziere, né di uno psicanalista questa considerazione, ma dell’Economist, il settimanale che vanta oltre un milione di abbonati in cerca del “senso del mondo” (come recita il suo slogan). L’ultimo numero, che annuncia la crisi economica imminente, più nera di quella del ’29, dedica alcune pagine a ricostruire la “biografia” della solitudine, le sue alterne vicende nei secoli: fuggita da alcuni per mettersi al sicuro, ricercata da altri con il divenire della nostra società sempre più complessa e rumorosa. Con alcune battute d’arresto.

Se all’inizio del 1900 i nuclei famigliari composti da una persona sola erano il 5%, oggi in America sono il 25%, in Svezia il 50%, in Gran Bretagna il 30%. Qui nel 2017, dopo la circolazione di un report che denunciava che 9 milioni di inglesi dai 20 ai 90 anni soffrivano di loneliness, solitudine, è stato istituito il Ministero della Solitudine con il compito di promuovere strategie e call to action per ricreare comunità attorno a chi si sente dimenticato, lonely.

Ecco un punto non trascurabile: per definire la solitudine, alla lingua inglese non basta una parola sola, ricorre a due distinte, solitude e loneliness. Pur riducendone molto lo spettro semantico, potremmo descrivere la loro differenza così: puoi soffrire di loneliness anche in una palestra affollata di scalmanati che si affannano ai loro attrezzi o in una piazza gremita di folla. E invece al contrario potresti non sentirti così solo in uno spazio chiuso, con nessuno intorno, immerso in una totale solitude. La prima (loneliness) evoca una dimensione intima, non per forza determinata dalle circostanze esterne: cammino una maratona in solitaria, ma non mi sento solo perché respiro con il fiato del mondo. La seconda (solitude) invece accade per sottrazione di compagnia intorno, come durante il lockdown anti-contagio: qualcuno è rimasto schiacciato dal senso insopportabile di abbandono, altri hanno scoperto risorse sconosciute, una sorgente di compagnia interiore.

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Certo le avventure di questo binomio, come dice bene l’Economist, nelle ultime settimane si sono intrecciate, addensate in dialoghi a distanza e hanno scoperto ferite.

Un indicatore quantitativo? Le 600.000 telefonate arrivate al numero attivato dal nostro Ministero della Salute per l’emergenza Covid, che nello scorrere delle settimane sono passate da richieste di informazioni tecniche, “dove trovo la mascherina?”, a dei veri S.O.S.: “aiuto, mi sento solo”.

Un indicatore istituzionale? Il comunicato stampa dello scorso marzo di Hans Henri P. Kluge, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che recitava così: “Le misure per interrompere la trasmissione del virus ci stanno concedendo tempo, ma a un costo sociale ed economico elevato. La distanza fisica, l’isolamento, la chiusura delle scuole e dei posti di lavoro colpiscono ciò che amiamo fare, dove vogliamo essere e le persone con cui vogliamo stare. Naturale che sentiamo stress, paura, solitudine (loneliness). Che mettono a rischio la nostra salute mentale”. Cioè se non facciamo ciò che amiamo e non stiamo con chi ci piace stare, diventiamo matti, è in sintesi l’allarme di Kluge. Una firma del New York Times, Adam Grant, che si definisce un cercatore di solitudine, ha raccontato di un esercizio particolare al quale si è dedicato in quarantena: compilare la lista delle persone più significative per lui (ne ha individuate cento), scrivere una lettera a ciascuna di queste e attendere. Un esercizio di selezione analgesica. La pioggia di risposte ricevute, a suo dire, ha riempito la sua loneliness e saziato il suo io. E per fortuna era un introverso.

Social distancing has been a tragedy for those living and, in some cases, dying alone. But for others it has proved a strange blessing

Economist

Il fatto che il tempo trascorso “restando a casa” abbia costretto tutti noi al paragone con questa dimensione ha sollecitato molti altri editorialisti, abili ad addomesticare le nostre ossessioni. I francesi con un filo di snobismo: Le Figaro ha pubblicato più di un pezzo per tratteggiare la prova psichica da non sottostimare, il processo che dalla solitudine conduce all’angoscia e all’ansia, e per proporre soluzioni pratiche, dallo yoga alle ricette per la cucina; France Culture ha dedicato una serie di documentari a declinare il tema “Vivere con la solitudine”.

Ma straccia tutti l’Economist, alla fine, per due passaggi.

Il primo perché, ripercorsa la storia della solitudine, all’ultimo paragrafo riconosce che tale tema ha assunto con la pandemia una centralità politica. E vengono in mente, più che i conflitti e attacchi a chi governa, tutte le persone morte da sole, senza poter sentire neppure il sussurro di una voce cara all’orecchio.

Il secondo perché il giornale economico, tempio della libertà, cita C.S. Lewis, proprio lui (sorpresa per la lettrice), un passaggio di una sua lettera a un amico, poco dopo la morte della moglie: “Mi piacerebbe incontrarti, sono molto libero ora. Uno non si rende conto nei primi anni di vita che il prezzo della libertà è la solitudine (loneliness). Essere felici è essere legati”.

È per questo io sono qui
E mai nemmeno per un attimo
Voglio stare lontano da te

L’infinito di stelle

Mina Fossati

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