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Si spaccasse lo specchio di Narciso

di Maria Laura Conte

Spicca nel lessico della campagna elettorale per le presidenziali negli USA la parola empatia. Si mescola certo ad altre categorie e questioni, ma lei ritorna, trasversale a tutte. Con la complessità che esprime già nel suono, è proposta nei social media come una discriminante politica: secondo i suoi avversari Trump ne sarebbe totalmente privo, al contrario di Biden, contestato per la stessa ragione dai suoi oppositori. Come una spia di un dato di fatto: i cittadini americani vorrebbero un presidente capace di “mettersi al posto loro”, di pensare e provare quello che pensano-provano loro.

Un bisogno politico questo, non sentimentale, di una virtù che gli anglofoni traducono con una immagine terra a terra: solo se ti metti “in my shoes”, se indossi le mie scarpe, sarai in grado di capire la mia prospettiva integrale.

https://twitter.com/EricaJong/status/1302058325052477440?s=20

Ma se la metafora è “calzante”, rischia di stritolare una parola dalla vicenda più articolata. La sua radice path- è la stessa del verbo greco pascho, che significa provare una sensazione, buona o cattiva a seconda del contesto o degli avverbi a cui è accostato. È un verbo che può volgere sia verso il soffrire per qualcosa di doloroso, o subire, sia verso lo stare bene, l’avere una buona sorte. Con l’aggiunta del prefisso em-, em-pathia recupera la dimensione del “dentro”, evocando ciò che si prova dall’interno di una situazione, da cui il significato di immedesimazione. Restando nell’antica Grecia, è l’esperienza che viveva chi a teatro da spettatore diveniva un corpo solo con chi calcava la scena, al punto da patire come l’eroe tragico, fino alla fine.

Ma nel tempo la parola muta e in Germania, dove suona come Einfühlung, si offre ai romantici per indicare l’unione della natura e dell’uomo, la capacità di percepire la natura esterna, come interna, quasi appartenente al nostro stesso corpo. E quando arriva a mente, cuore e corpo, l’impatto stordisce.

Nel 1900 sfiora un apice nella definizione di Edith Stein, per la quale l’empatia è un atto paradossale grazie al quale l’altro – il diverso da noi – investendoci, ci porta in terre ignote, favorendo un’esperienza intima e così aprendoci al “sentire insieme”, quindi al nuovo, al non calcolato.

In seguito gli psicologi hanno fatto propria questa parola come un attrezzo del mestiere: descrive la presenza di una relazione tra persone capaci di capire (con la ragione) ciò che l’altro pensa e prova, ma anche di rispondergli emotivamente.

Dunque è quando compare l’Altro che questa parola conosce un’ulteriore svolta semantica. Perché l’altro provoca, comunica, rallegra ma anche disturba.

E qui sembra innescarsi un nuovo paradosso: tanto cresce la domanda di empatia (vedi le campagne elettorali di cui sopra), quanto appare sbiadita la coscienza della presenza degli altri.

Basta il test di un viaggio in treno di questi tempi: il controllore deve ad ogni passo invitare i passeggeri a indossare bene la mascherina para-virus. Non si tratta per forza di negazionisti militanti, piuttosto di distratti che non registrano che ci sono altri intorno, che vanno protetti.

Non era invece distratto il filosofo che riconobbe il “santo” del nostro tempo postmoderno in Narciso. Concentrato totalmente su di sé e sulla propria auto-realizzazione, Narciso ritiene di non aver bisogno degli altri, al più gli servono, li parassita, e poi se ne libera.

Narciso con il suo specchio mostra che cosa sia il contrario dell’empatia: ancor più che la dispatia, come si usa in psicologia, è l’apatia, l’incapacità di accogliere l’altro, di provare immedesimazione e affetto, pathos.

Narciso si specchia, si conta le rughe, cerca nel suo medesimo sguardo la risposta alla domanda eterna “Chi sono io?”, e attorno a questa domanda auto-riferita si inaridisce fino a consumarsi.

Mentre sarebbe curioso, si spaccasse una buona volta quello specchio, vedere l’effetto dell’irruzione di qualcuno. Vedere cosa succederebbe se quella domanda si arricchisse di un “per qualcuno”, di un destino, diventando “Per chi sono io?”.

Sarebbe una rivoluzione. Per la persona e chi le viaggia accanto, magari sullo stesso treno.


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