Media, Arte, Cultura

Lo stratagemma del furore

di Maria Laura Conte

Che siamo inquieti, lo sappiamo. Che riapre la scuola e chissà che sciagura si sta apparecchiando per noi, lo beviamo dai giornali con il caffè al mattino. Che le elezioni e il referendum imminenti stanno incubando altra incertezza e nebbia, ormai lo diamo per scontato: da qualsiasi parte ci voltiamo, incappiamo nel riflesso fosco della nostra attualità. Trovare germi di fiducia nel tempo che ci attende si configura come un’impresa titanica. Ma visto che i titani si sono estinti da un pezzo, occorre tentare altre vie. Come lavorare sui dossier e le descrizioni di noi, e strappare le parole capaci di “dire” una svolta, di favorirla.

Partiamo dalla materia densa di dati dell’ultimo report annuale del Censis, che già molto prima della primavera 2020 ci classifica come incerti, sfiduciati e smarriti: il 38,2% degli italiani è convinto che nel futuro i figli o i nipoti staranno peggio di loro, convinzione radicata che genera stress esistenziale, intimo, logorante; il 74,2% degli italiani dichiara di essersi sentito molto stressato per la famiglia, il lavoro, le relazioni o anche senza un motivo preciso; al 54,9% è capitato talvolta di parlare da solo; nel giro di tre anni (2015-2018) il consumo di ansiolitici e sedativi è aumentato del 23,1% e gli utilizzatori sono ormai 4,4 milioni.

Finché l’ansia riuscirà a trasformarsi in furore, non ci sarà alcun crollo

Censis

Eppure tra queste percentuali da anestesia dell’era ante-pandemia (non si osa immaginare il prossimo report) si coglie un indizio: nello stordimento sociale il Censis individua qualcosa che spinge gli italiani a inventare stratagemmi per sopravvivere. Lo chiama furore di vivere: “finché l’ansia riuscirà a trasformarsi in furore, non ci sarà alcun crollo”, sentenzia.

Leggi “furore” nel documento e gli occhi visualizzano i cavalloni del mare agitato, che ti sollevano con tutto il tuo peso e poi ti schiantano, o un attacco di ira, una schiacciata sotto canestro o l’infiammarsi di una passione che nasce in un luogo che non sai mappare. Qualcosa che non puoi produrre da te, viene da altrove.

In latino furor è la furia, la pazzia, il delirio che può portare alla rivoluzione. Per Catullo i furori sono indomites, implacabili, ed è lui che scrive a Lesbia “odi et amo” (ti odio e poi ti amo, che in seguito gli ha copiato Mina); per Cicerone il furore è mentis ad omnia cecitatem, cecità assoluta della mente. Per un poeta come Ovidio è invece ispirazione, spirito profetico, per Virgilio equivale a quell’amore per il quale è difficile trovare un rimedio, medicina furoris.

Un patrimonio di significati che induce il traduttore di Steinbeck a scegliere Furore per rendere The Grapes of Wrath (i grappoli di ira), il titolo originale di uno dei romanzi che più hanno fatto discutere gli americani. In tre sillabe ha catturato la spinta che muove i protagonisti a partire, lasciare terre aride per osare avanzare verso un Ovest depositario di speranza. Lungo la Route 66 quei migranti lavorano l’angoscia, non la mollano alla deriva, che ne farebbe pura violenza o inanità, e così quella si trasforma e diventa furore di vita che genera dinamismo, ricerca di una salvezza.

Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia

J.E. Steinbeck

Solo che serve qualcosa per lavorare quell’ansia iniziale, un motore di accensione.

Serve l’intuizione, un modo di osservare la realtà con un setaccio di meraviglia, di guardarla dentro (in-tuire) per recuperare la possibilità di una novità. È la curiosità che porta a iniziare un’impresa, a prendere un treno verso una destinazione senza ragionare su quanto “convenga” o meno, perché potrebbe aprire a qualcosa di non calcolabile; ad alzarsi dal divano (quell’abbraccio protettivo, rifugio dei tempi del lockdown), a varcare un confine, ad assumere una responsabilità verso altri, un impegno (accidenti, un impegno) perché non l’abbiano vinta né la paura né l’incertezza.

L’intuizione è un regalo sacro, e la razionalità un servitore fedele, pare abbia detto Einstein. Con un corollario geniale come lui: siamo partiti bene, poi ci siamo incartati in una società che onora il servo e ha dimenticato il regalo.

Sarebbe ora di riprenderci il nostro regalo.


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