Media, Arte, Cultura

La trivella della noia

di Maria Laura Conte

Certe parole scoppiano. Le vorresti deglutire, a volte, ma quelle (per fortuna) sono anarchiche.

Appena cominciano a formarsi in qualche piega del cervello, si inerpicano per anfratti segreti, si caricano di una loro energia autonoma e arrivano alle labbra. Anche se sei convinta di tenerle a bada, che sarai cauta e modererai ogni sillaba, quelle invece in un secondo sfuggono al controllo ed, ecco, le senti suonare fuori di te e, con sorpresa, realizzi che sei tu, tu accidenti, che le stai pronunciando.

Alcune più di altre hanno carica dirompente. Le parolacce, per esempio: a volte comportano solo violenza e volgarità, altre invece hanno valore catartico.

Ma le preferite sono le parole-mina, che aiutano a diagnosticare una sensazione o una situazione. E la loro natura anarchica gli permette di scavalcare le barriere che, incoscienti, costruiamo tra noi e la realtà così com’è. La maestra di queste? La parola noia, versatile e impietosa.

La conosce il pendolare che prende il solito mezzo di trasporto, ripete gesti di routine, varca la soglia dell’ufficio, siede al suo tavolo, ripassa la to-do-list in cerca di qualche fiamma di originalità, e nel frattempo quella parola sale, sale, e di fronte allo schermo noto esplode: “che noia!”.

O in una mattina della seconda ondata pandemica, la lettrice devota di quotidiani, che ancorata a un antico rito civile sfoglia le pagine con la speranza di trovare notizie diverse, resiste di fronte al cinquantesimo virologo, ma al ventesimo annuncio che “manca la politica” crolla: “che noia”.

Più penosa è quella che si percepisce in compagnia di certe persone: sbadigliare no, non è elegante manifestare plasticamente quella sensazione che non osiamo ammettere, ma che resta quella.

Siamo noi, annoiati di fronte a schemi ripetuti, incastrati nella monotonia di condizioni e tipi, in un’impazienza che annuncia irritazione, e nei pressi di una forma patologica, una depressione che sfocia nel tentativo di congelarsi dal mondo. Come se il ritrarsi potesse sigillare la noia fuori di noi.

Nonostante Leopardi la chiamasse il più sublime dei sentimenti umani, questa noia ci dà noia. Perché appunto diagnostica, rivela che non stiamo bene, che non siamo a nostro agio, che c’è qualcosa o qualcuno che non avvertiamo come un bene per noi. Qualcuno la può avvertire come un lusso ("Magari potessi annoiarmi al lavoro o a casa"), invece brucia, come una ferita nascosta.

E quindi? Visto che fuggire non si può perché ce la porteremmo appresso, occorre smontarla pezzo a pezzo, capire da dove viene, cosa la causa e soprattutto dove ci vuole portare.

Al netto delle incertezze etimologiche, noia deriverebbe dal provenzale enojar, dal verbo latino inodiare, avere in odio. Se contiene anche un piccolo tasso di odio, si può comprendere perché ci sia così molesta.

In ogni versione linguistica svela qualche sfumatura: in spagnolo diventa aburrimiento, avere in orrore, in tedesco Langweile evoca il tempo troppo dilatato e lento, in ebraico Lashaamem richiama sia la notte, il buio e la paura, che lo struggimento e il desiderio; meraviglioso è l’inglese che la traduce con boredom, dal verbo to bore, trivellare.

Diman tristezza e noia

Recheran l'ore

G. Leopardi

Dunque come possiamo reggere a questa trivella? A ciò che usura noi, consuma il nostro tempo senza lasciarci in mano altro che senso di vuoto?

Qualcuno prova ad ammazzarla, cambiando lavoro, marito o moglie, compagnie, chiese e partiti. A ingozzarla di sequenze di esperienze, alzando sempre l’asticella. Ma è bulimica la noia, divora tutto quello che le si dà in pasto pur di non affrontarla a viso aperto, sta rannicchiata e alla prima curva rialza la testa.

È imperdonabile. Salvo che per un aspetto, che un po’ la salva: quando funge da allarme. Dà fastidio come la sveglia che chiama fuori dal letto in una mattina di dicembre o l’antifurto delle auto: avvisa che è ora di alzarsi, darsi una mossa, correre subito fuori perché ci stanno derubando. Di cose, di tempo, di desiderio.

Il desiderio di trovare un significato (un ideale?) in come spendiamo i nostri giorni, qui ora. Di ritrovare nel lavoro un gusto sepolto da chissà quali detriti. Di re-imparare ad ascoltare quel che sta trai silenzi e gli accenti di chi ci parla.

Di recuperare una lealtà con noi stessi che, forse inseguendo qualche fantasma ambizioso, abbiamo trascurato. Un lavoraccio, in effetti.


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