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La fatica ha fame

di Maria Laura Conte

La forma che la fatica predilige per presentarsi è quella di obiezione, in cento declinazioni: “non ci riesco a scalare, fare quel lavoro, fidanzarmi, decidere di fare un figlio, darmi alla politica, tenere un cane perché… perché è faticoso”.

A volte è una scusa, un alibi di ferro, una coperta che nasconde solo pigrizia. Altre volte, invece, è sincera, una prova titanica capace di piegarci.

La fatica non è propriamente una signora in simpatia. Più passa il tempo poi, più diventa insostenibile per le nostre risorse che invecchiano. Così ordinaria, entra nelle fibre delle nostre giornate con volti diversi, ma sempre con l’effetto di disturbo. Ci frena, distoglie.

Soprattutto ha i tratti della inevitabilità: vorremmo scansarla così tanto e da sempre, che l’intelligenza dell’homo sapiens ha creato di tutto per domarla, renderla lieve, con scoperte e meraviglie della tecnica.

Solo che più studiamo come evitarla, più ce la troviamo addosso. Impossibile sbarazzarsene senza attraversarla. Pone lei stessa questa condizione, ci mette alla prova, curiosa di vedere come ne usciamo dai tempi di Ercole e le sue fatiche, prove, fino ai nostri giorni.

Ha una chimica particolare: chi non s’arrende subito e decide di assumerla, ne esce in genere con soddisfazione. Gli esempi corporei, l’arrampicata, la corsa, il parto, sono autoevidenti: la vetta, il traguardo, il neonato in braccio di colpo fanno sbiadire il ricordo della fatica appena superata, anticipandone altre di nuove, spostando la linea di resistenza un po’ più in là.

Sembrerebbe avvincente, eppure qualcosa la mantiene antipatica.

Fatica, dal latino, descrive in prima battuta lo sforzo materiale necessario in qualsiasi attività fisica, per cui diciamo appunto “serve fatica di braccia o di gambe”, ma indica anche il travaglio cerebrale, la temibile fatica mentale e le sue sorelle. L’ha adottata anche la tecnologia meccanica per definire la condizione degli elementi di una struttura sottoposti a sollecitazioni che, ripetute, provocano una rottura per fatica: la fatica (ci) spacca, spezza, rompe.

Risalendo alle origini si scopre che è parente stretta di fatis, che significa crepa, parola-poesia, e al verbo fatiscor, mi fendo, mi dissolvo: esprime quella sensazione molesta che si percepisce quando pensiamo che non ci bastino i mezzi a disposizione per arrivare in fondo a un’impresa, che ci eccede. Di qui i significati di mancare, venir meno, esaurirsi, stancarsi. Excercitus per inopiam fatiscebat, l’esercito si sfiniva per la mancanza di mezzi, racconta lo storico Tacito (e che empatia per quelle truppe esauste avvertiamo).

Ma se restiamo sui sentieri dei dizionari delle lingue-morte – più vive che mai con buona pace dei loro avversari – scopriamo un’altra parola che condivide lo stesso nesso con la radice di fatiscor: è fames, fame, che nasce per dire l’aver bisogno di qualcosa, il desiderio di qualcosa che manca.

Del resto l’immagine di quell’esercito della storia antica lo suggeriva: fatica e fame procedono insieme.

Mie fami, girate. Pascolate, o fami, nel prato dei suoni!

A. Rimbaud

La fatica della marcia si accompagna alla fame di tregua, la fatica dell’andare alla fame del riparo sicuro, la fatica del compito alla fame dell’abbandono. La fatica può stordire, tagliare le gambe al punto che uno, sedendosi al bordo della strada, vorrebbe mollare, chiedere agli altri “lasciatemi qui per favore”. Solo che prima di cedere del tutto, deve fare i conti con la fame di compagnia, di qualcuno che tiri. Una fame che è percezione di vuoto e simultaneamente spinta a riempirlo.

Sono inseparabili fatica e fame perché sono vita, allo stato puro.
Perciò potremmo forse cominciare a essere loro grati, perché ci comunicano che siamo ancora vivi. E che potremmo pure concederci di essere intrepidi.

La fatica perseverante e la continua applicazione sono il cibo del mio spirito;

quando comincerò a riposare e a rallentare il mio lavoro, allora cesserò anche di vivere

Petrarca

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