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In cerca di pensiero divergente

di Maria Laura Conte

Lo hanno licenziato perché è arrivato per primo a dare una certa notizia durante le presidenziali Usa. Solo che era una notizia di taglio politico urticante per il pubblico del suo canale e più ancora per l’editore. È successo in America, ma il suo rumore è arrivato da noi sulle righe di un editoriale che Chris Stirewhalt, questo il nome del giornalista incriminato, ha scritto per il Los Angeles Times. Un pezzo vibrante in cui l’autore coglie lo spunto del licenziamento per ragionare sulla tensione tra due parole contrapposte, habituation e information, assuefazione e informazione. Il pubblico americano, si legge, è stato così ingozzato (metaforicamente) da un certo tipo di prodotti mediatici ad alto tasso calorico (fake news) e con scarsi principi nutritivi (verità) che si è assuefatto, non informato. Al punto che quando gli viene passata una notizia, quando cioè si trova esposto a pura informazione, l'organismo va in collasso, non riconosce la dieta quotidiana, la rifiuta fino a vomitarla.

La metafora è esagerata, ma getta luce su un angolo che lasciamo volentieri al buio: siamo in tanti ormai capaci di ascoltare solo quello che già sappiamo o vogliamo sentirci dire o conferma il nostro pre-giudizio. Siamo propensi all’assuefazione, accomodati nella narrazione di una realtà semplificata nella quale l’irruzione di un pensiero divergente disturba: si presenta come dissidente, non viene neppure riconosciuto per quel che è, cioè una cosa altra da noi con un potenziale curioso. Per cui è a priori scansato.

Sarebbe interessante indagare il momento storico in cui è iniziato questo processo di perdita del gusto per il confronto con la differenza. Quando quest’ultima ci è divenuta così insopportabile? O quando noi ci siamo così infragiliti?

Per i nostri autori latini la “divergenza” era una dimensione quotidiana con cui trafficare, in guerra, in politica e filosofia. Il latino diverto – diversum indica il volgersi verso due parti opposte, separate, lontane. Per Cesare diverso può essere per esempio un cammino che procede nel senso opposto a quello voluto (iter a proposito diversum), quindi può essere insidioso, ma attraente; mentre per Sallustio è la parola giusta per descrivere l’agitarsi tra emozioni estreme, tra timore e sfrenatezza (metu atque lubidine divorsus agitabatur).

Eccolo, tra Cesare e Sallustio, il punto dolente e fascinoso: la divergenza sposta, apre finestre, mostra spigoli diversi, quindi espone a rischi. Come quello di cambiare idea, di accettare di poter fare un passo indietro o di lato. Di-svela cose della realtà intorno, fenomeni, che non vedevamo quindi tanto meno calcolavamo. Perciò ne abbiamo bisogno, soprattutto quando il mondo intorno a noi si presenta sempre più complesso e tentare di semplificarlo distrae e basta.

Iter a proposito diversum –

Una strada opposta a quella immaginata

Cesare

Per fortuna (e non è solo gioco di etimologie) c’è un modo per stare alla prova della divergenza senza sfracellarsi giù per precipizi oscuri: si chiama conversazione.

Conversare (da cum – verto, stessa composizione di di-verto) chiede di cimentarsi in un dialogo con chi non è uguale, non la pensa uguale e non la vede uguale a noi, eppure partecipa della stessa comunità.

Conversare è tempo consumato nel fidarsi della propria differenza e insieme nel lasciarsi investire dall'opinione divergente altrui, per spingersi su terreni di creatività neppure immaginata prima. Una con-versazione schietta su come reimpostare stili di vita, politica ed economia dopo la botta della pandemia è l’esempio più banale da proporre, a portata di mano. Ma ciascuno lo può verificare nell’esperienza quotidiana: su piani diversi la conversazione è un invito a rinunciare ad appaltare ad altri responsabilità proprie.

Chi si “abitua” (per tornare all'espressione del giornalista americano) a questo tipo di conversazione, difficilmente ci rinuncerà. Perché è attivazione di umanità: si rischiano depositi personali di certezze e progetti, per una posta più alta. Si contrasta l'assuefazione, quell'antipatica forma di obesità dell'anima.

Sì, a qualcosa si deve rinunciare, ma quel che si guadagna è di più. Si tratta di fatti, non chiacchiere.


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