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Il dovere del Maestro (un dono che non sentiamo più)

di Luigi Maruzzi

Oggi, 23 marzo, termino la lettura di "Una gratitudine senza debiti" scritto da Luca Doninelli per onorare la memoria del suo maestro, Giovanni Testori (1). Ricordo il giorno in cui l'ho comprato. Appena entrato nel bookshop, fui subito attratto da questo libro e contemporaneamente da un altro volumetto: la raccolta delle poesie di Sergio Corazzini. All'inizio non ne capivo la ragione. Il fatto di avere a disposizione pochi minuti per scegliere un piccolo regalo per me stesso deve essere stato determinante. Forse il pensiero è più veloce di quel groviglio di materia chiamato cervello, che permette l'elaborazione controllata delle informazioni. Forse il pensiero legge 'attraverso' la materia di cui sono composti i libri quando è costretto a lavorare in situazioni di stress. Fatto sta che ritorno a casa e scopro il collante che tiene uniti i due libri.

Entrambi hanno a che vedere con la figura di Tommaso Landolfi (di cui ho saccheggiato ogni opera disponibile negli anni 92-98). Doninelli richiama più volte lo scrittore di Pico come una delle sue passioni letterarie giovanili. A sua volta il volume che raccoglie i versi del poeta romano è stato curato dalla figlia di Landolfi: Idolina. Procedendo poi nella lettura, apprendo di quanto fosse speciale il rapporto tra Testori e sua madre, che si chiamava Lina, come la mia. Ma onestamente, e per farla corta, si tratta di coincidenze che al massimo possono favorire empatia tra lettore e scrittore, piccole suggestioni che finiscono per espropriare capacità critica e niente più.

A solleticarmi è un’altra cosa. Chissà quali novità volessi ricavare da questa lettura. Magari un aneddoto, un particolare tratto biografico, qualche pettegolezzo o segreto per capire meglio la personalità e l'opera di Testori. Sinceramente, credo invece che la mia curiosità più profonda agisse proprio nella direzione di Doninelli, del discepolo e non del maestro. Con + 8 anni di differenza (equivalenti, come metafora auto-esplicativa, alla somma di medie e liceo), l'Autore della "Gratitudine" è riuscito a restituirmi un resoconto generazionale di cui sento un forte bisogno (2). I miei anni hanno incrociato i suoi, anche se a Foggia (molto lontano cioè da via Brera 8). Come faccio a dimenticare l'aria di ‘evento’ che si respirava in San Giuseppe Artigiano la sera in cui veniva rappresentato il testo di "Interrogatorio a Maria"? Potrei mai cancellare l'ammirazione che – sempre sul finire degli anni 70 – provavo per Fedele (militante di Comunione e Liberazione)? Stava quasi tutto il giorno dentro un locale minuscolo che si affacciava su Piazza San Francesco Saverio, a compiere ‘azioni di sensibilizzazione’ sui problemi dei nostri fratelli del terzo mondo. Può darsi che Doninelli non ami particolarmente la musica religiosa (quella post conciliare, intendo) se è vero che nel suo libro non cita mai Claudio Chieffo. Eppure, per noi, Chieffo era una figura importantissima, che sapeva veicolare attraverso le canzoni i messaggi più potenti del movimento fondato da Don Giussani.

Resoconto generazionale, dicevo. Ma non solo. La strutturazione del libro per capitoli brevi non è solo funzionale all'accompagnamento del lettore nel piccolo 'bosco narrativo', ma contribuisce alla creazione di uno scrigno con tanti cassetti, ognuno dei quali può essere aperto autonomamente e riserva sorprese sicure. Fra queste l'Autore inserisce un metodo in pillole per comporre un racconto (pagine 105-106), proprio lui che in più punti della "Gratitudine" si lamenta di Testori perché parco di consigli su come scrivere una storia.

E poi c’è il problema di quale senso attribuire al gesto di omaggio che Doninelli compie nei riguardi di Giovanni attraverso la pubblicazione di questo libro. In realtà, tutte e 124 le pagine ruotano attorno al tentativo di chiarire (prima di tutto a se stesso) cosa distingue le tre figure di Padre Maestro e Amico (in questo caso declinata al plurale). Doninelli conduce quest'operazione alla stregua di un’esplorazione archeologica. Lavora di scavo. E anche quando si accorge di avere i polmoni pieni di polvere continua senza fermarsi. Non so se il tentativo sia riuscito, ma posso dire che quando finisci di leggerlo, il retrogusto che ti rimane in bocca (e che assomiglia a quello che si avverte dopo aver bevuto un vino d'annata), la sensazione insomma che non puoi governare con le tue sovrastrutture culturali, restituisce un'impressione nettissima: Doninelli ha visto in Testori la possibilità di trovare in un colpo solo il padre il maestro e l'amico che avrebbe voluto tutto per sé. Scrivere il libro a distanza di 25 anni dalla morte di Testori, gli ha dato il modo per celebrare una specie di processo (nel quale Luca accusa e discolpa) sapendo di non potere più pretendere il risarcimento per le ambizioni tradite, per le delusioni subite, per gli slanci fustigati. E questo non è un'operazione letteraria, o più semplicemente culturale. L'abbondanza d’incenso e carezze non riesce a ingannare il demone crudele della verità (ogni lettore possiede il suo sensore). Tra le dolci parole di sapore infantile ordinatamente disposte e quelle confusamente sussurrate all'orecchio, si sente una voce di adulto, più imponente e decisamente violenta, che inveisce contro il suo Giovanni. Un solo sentimento sovrasta tutto e anche se risulterà poco testoriano, va chiamato col suo nome più facilmente riconoscibile: amore.

(1) Luca Doninelli, Una gratitudine senza debiti, Milano 2018 (La Nave di Teseo)

(2) Doninelli è del 1956.


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