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Attivismo civico & Terzo settore

Sceglimi…. ovvero la necessità di “un’isola che non c’è”

di Claudio Di Blasi

Ne sono passati 1.700 l’anno scorso, correvano per poco più di 600 posti di servizio civile, servizio civile in Garanzia Giovani, leva civica regionale. I millesettecento sono i giovani candidati, quei ragazzi e quelle ragazze che ti trovavi davanti nei colloqui di selezione, tutti diversi ma tutti eguali nella loro voglia di “essere scelti”.

Tra pochi giorni uscirà un nuovo bando… i “selettori” della mia associazione ricominceranno il lavoro di scelta dei “migliori”, ovvero quelli che faranno un anno di servizio civile. Io mi terrò defilato: saluterò i candidati all’inizio dei colloqui di gruppo, farò una breve presentazione agli incontri di orientamento. So già che, di tutti i visi che vedrò, tre su quattro si sentiranno dire che sono “idonei ma non selezionati” od addirittura “non idonei”.

Mi dicono che con il “servizio civile universale” a nessun ragazzo si dirà di no: vuoi fare il servizio civile? Tel chì il posto che fa per te. Cool, ma io vedo un’altra realtà: l’ho vista l’anno scorso, e quello prima anche.

Da un lato ci sono loro, i “ragazzi” e le “ragazze”, con le loro storie ed i loro desideri. Gareggiano per essere scelti , ma sai benissimo che molti di loro non ce la faranno. Non possono farcela, perché vogliono andare in biblioteca, ma scrivono “bibbliotteca”, con tre bi e due ti. Perché sono sfortunati: hanno scelto un progetto disabili, ma un loro concorrente si sta laureando in scienze dell’educazione ed ha già fatto un tirocinio, mentre loro hanno la terza media e sino a sei mesi fa lavoravano in cantiere. Perché nessuno gli ha spiegato come relazionarsi con gli altri: non puoi partecipare ad un gruppo stendendo le gambe sotto al tavolo, come se fossi al bar, con un auricolare ancora infilato nell’orecchio.

Insomma, c’è una bella percentuale di aspiranti che non potrà MAI farcela, a questo colloquio ma anche a qualunque altro: sono troppo fragili, troppo impreparati, troppo isolati, troppo delusi. E’ come far gareggiare per i cento metri Usain Bolt e il Giacomo Rossi, giovane promessa della polisportiva parrocchiale di Curno (provincia di Bergamo)….. si sa già chi vince.

Poi ci sono gli enti che “accolgono” questi giovani: enti pubblici e privati, delle più varie dimensioni, tutti accomunati da un fattore economico e organizzativo: sono stressati. Che vuol dire stressati? Vuol dire che mancano risorse, denari, personale. Ricordano quella “famiglia media” spesso citata nelle indagini ISTAT di questi tempi, che di fronte ad una spesa imprevista di poche centinaia di euro va in crisi, che non solo manca di risorse per innovare e crescere, ma anche solo per sopravvivere. Questi enti vedono il volontario come una risorsa preziosa, indispensabile, necessaria per “non andare sotto”. Per queste realtà il “patto” è chiaro: ai volontari offro la possibilità di crescere, perché questi ragazzi mi permettono di continuare a fare il mio lavoro. Quindi si scelgono i ragazzi più in gamba, più preparati, più attivi e reattivi.

Del resto quale organizzazione immetterebbe nei suoi ranghi l’inadeguato o il problematico? Ed il tutto viene fatto con le migliori intenzioni: vi sono enti locali che scelgono i “migliori” per prepararli a diventare i funzionari del futuro (quando gli dei vorranno riaprire i concorsi pubblici), e cooperative sociali che ogni anno traggono dal loro “vivaio” di volontari i nuovi dipendenti o i soci lavoratori. Fatto sta che il problema degli “eterni esclusi” rimane lì, fermo con le quattro frecce.

Hai scoperto l’acqua fresca, direte voi: stai parlando dei NEET. Sveglia Claudio, guarda che da un anno c’è Garanzia Giovani! E’ che questa azione dell’Unione Europea l’ho vista applicata concretamente, proprio al servizio civile. Ed anche in questo caso ho visto replicare i meccanismi del servizio civile: se si deve scegliere tra un inoccupato laureato ed un disoccupato già guidatore di muletto, si sceglierà il primo. Il fatto è che non abbiamo tenuto conto di un fattore, quando sedici anni fa si è passati dal servizio civile “obbligatorio” a quello “volontario”: con il secondo non sono solo i giovani a scegliere, ma anche gli enti, che cercano per sé la risorsa umana più adeguata.

Di fronte a tale situazione, le risposte possibili sono limitate. La prima è affermare che quanto descritto è inevitabile, fa parte del gioco. Tutti hanno eguali opportunità, ma non tutti hanno eguali capacità. In una gara c’è sempre chi arriva ultimo, facciamocene una ragione. E chi arriva ultimo, in attesa di essere primo in un futuribile regno dei cieli, potrà sempre essere oggetto dell’assistenza caritatevole dei primi. Amen.

La seconda risposta è rifiutare tout court l’inevitabilità della concorrenza, obbligando la realtà a muoversi su strade ugualitarie. Basta con queste valutazioni meritocratiche e che puntano all’efficienza. Se un giovane ha le caratteristiche minime per fare il servizio civile (età, cittadinanza, mancanza di condanne) lo deve poter fare: vi sarà una qualche struttura che decide quando inizia e dove inizia il suo anno. L’ente di accoglienza se lo prende, punto: se ha qualcosa da ridire, ebbene può fare a meno del volontario. Se il volontario ha qualcosa da ridire su dove viene spedito, ebbene può ritornarsene a casa sua. Nei paesi del blocco socialista del secondo dopoguerra si è provato ad applicare tale sistema al mercato del lavoro, pare con pessimi risultati.

La terza risposta possibile è prendere atto che giovani diversi chiedono risposte diverse, e che il servizio civile così come l’abbiamo costruito ed immaginato sino ad ora non potrà mai accogliere gli “eterni esclusi”, al di là del definirlo “universale”. A dire il vero, negli anni e mesi scorsi vi è stato chi ha provato ad immaginare percorsi di integrazione per le fasce giovanili più deboli, riproponendo un servizio civile obbligatorio: qualche anno fa trovammo questa proposta nel programma del centro sinistra di Prodi, mentre questa estate è stato Matteo Salvini a rilanciare l’idea. Una proposta che aveva ed ha una base di partenza corretta (la necessità di dare a determinate fasce giovanili una base formativa e di educazione alla cittadinanza ora mancante), ma che esaurisce la sua spinta propulsiva nello strumento proposto (piaccia o non piaccia, la leva obbligatoria è stata vista, è vista e sarà vissuta come un’odiosa corveé ed una tassa sul tempo di vita).

Abbiamo bisogno di una “isola che non c’è”: un servizio civile che:

a) non sia rivolto ai migliori, ma scelga i meno “appetibili” per formazione scolastica e situazione socioeconomica;

b) permetta a questa fascia di giovani di svolgere attività che abbiano sia un riconoscimento pubblico, in termini di utilità sociale, sia di crescita formativa e di cittadinanza per loro stessi;

c) punti alla “autoattivazione” di questi ragazzi, non solo con la scelta volontaria di aderire al percorso, ma anche con lo svolgimento del percorso stesso, spingendoli a costruire modalità di interventi comunitari e condivisi, creando solidarietà a partire da loro stessi e dall’esperienza che vivranno: un’esperienza che tra i partecipanti crei il clima da “band of brothers”, tipica dei gruppi giovanili che vivono un’esperienza di vita difficile che li accomunerà per il futuro;

d) abbia costi di gestione e di governo limitati, per ciò che riguarda sia le risorse economiche da investire sia le risorse umane da impiegare per coordinare e dirigere i giovani ingaggiati;

e) preveda un riconoscimento formale delle competenze acquisite, per iniziare a porre rimedio ai percorsi scolastici accidentati, se non fallimentari, che quasi sempre sono una delle ragioni della situazione giovanile sopra descritta;

f) per i punti sopra descritti sia costituito da unità operative numerose di giovani. Non serve il modello di servizio civile tradizionale, con un volontario nel servizio x e altri tre nel servizio y. L’obiettivo della “band of brothers” si raggiunge con numeri più alti, con l’unità di base composta da un minimo di 20 a un massimo di 50 effettivi.

Questo “nuovo servizio civile” difficilmente potrà essere dato in gestione a realtà quali gli enti locali o quelli del terzo settore, come è avvenuto sino ad oggi con il servizio derivante dall’obiezione di coscienza o dalla scelta volontaria. Per la tipologia di interventi che dovrà effettuare, per il modello organizzativo da mettere in campo, per gli obiettivi che ci si pone, occorre una realtà istituzionale di dimensionamento ampio, anche se legata al territorio… come ad esempio la Regione: ciò non esclude ovviamente che quest’ultima si avvalga di capacità, risorse e competenze presenti sia negli enti locali che nel terzo settore.

Due ultimi dati. Il primo sul numero di giovani potenzialmente coinvolgibili in questo nuovo percorso: secondo un’indagine svolta da Ipsos, all’interno della ricerca “Ghost: indagine sui giovani che non studiano, non lavorano o non si formano” (promossa dalla ONG WeWorld), i giovani “inattivi e poco formati” costituiscono il 10,9% della popolazione giovanile, a cui si aggiungono il 9,3% di giovani “lavoratori poco formati”, e quindi a rischio di finire nel primo gruppo.

Il secondo dato è dato da precedenti interventi, interessanti da un punto di vista storico, ma non solo: l’esperienza più organica è stata quella dei Civilian Corporation Corps, svoltasi negli USA roosveltiani tra il 1933 ed il 1942 ( a questo link informazioni e dati sull’esperienza). E mentre ponzate sulle righe precedenti, eccovi un degno sottofondo musicale…. i “Prozac +” , con un pezzo che ha un titolo illuminante:

https://www.youtube.com/watch?v=Ofd2g_qscK0


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