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Elogio dell’equilibro

di Giulio Sensi

C’è stato un tempo in cui chi si arrabbiava stava dall’altra parte della barricata: voleva combattere, pensava di combattere, tutti i poteri, rovesciava le colpe del mondo sul sistema, usava tante parole e tante frasi iniziavano con il “voi”. Il “noi” era poco contemplato in questa sorta di “rivoluzione a parole” che poi sul piano fattuale ha sempre ottenuto poco. O meglio, i cambiamenti, anche quelli belli e positivi, non sempre sono stati figli di questi discorsi. Talvolta sì, quando si sono trasformati in esempi e azioni. C’è una letteratura e una storia in merito, che ve lo dico a fare.

A noi, tardo-teenagers che tante volte siamo scesi in piazza o per le strade -ma ancora più spesso ci siamo rimboccati le maniche per fare qualcosa di concreto- alla fine degli anni ’90 dicevano di stare calmi, stare buoni, non esser scalmanati, stare tranquilli e farci uomini. Noi con la nostra guerra andavamo ancora avanti e abbiamo imparato a non urlare a caso, anzi a non urlare proprio, semmai a parlare tutti insieme a bassa voce, a guardare dentro alle cose a volerle cambiare cambiandoci dentro con umiltà, ad abbandonare certe inutili ideologie che ancora fanno una certa presa (che siano orientate a destra o a sinistra o disorientate).

Fanno una certa presa, ma servono solo ad impedire alle persone di sviluppare dei pensieri e una visione del mondo equilibrata, basata sull’osservazione della realtà dei fatti e su valori -non ideologici- sempre più fuori moda. I vecchi, mi scusino ma è così, ci volevano faziosi, in quanto tecnicamente facenti parte di fazioni guidate da loro. Orrore, anche perché l’obbiedienza non era più una virtù.

Così il manicheismo -che rimane insieme alle teorie di Lombroso e alle poesie di Leopardi una delle reminiscenze più belle dei meravigliosi tempi del Liceo- rivelò di sé molti più limiti di quanto apparisse e forse, grazie anche a buoni insegnanti sempre determinanti, imparammo allora ad essere critici senza discostarsi dalla realtà. Imparammo che se la libertà di espressione si accompagna all’esercizio del pensiero è tutto più concreto e normale, tutto più equilibrato.

Che il pensiero è esercizio, ricerca, curiosità, malleabilità dei propri strumenti di comprensione della realtà. Il bianco e il nero non spiegano quasi mai nulla e inducono a rinunciare all’enorme varietà di colori e di dettagli di cui è fatto il mondo. Ah, che gusto è guardare il mondo attraverso le sue sfumature.

Questo mondo è oggi cambiato e la politica nella sua alta accezione, che prima era prevalentemente basata sulla moderazione funzionale alla conservazione (cioé badava in gran parte a conservarsi al potere e non a cambiare le cose) è diventata invece terreno di scorribande verbali e non solo.

Vanificato il limite oramai. Un ring in cui si fa a gara ad aggredire il pensiero e l’oggettività delle cose per ottenere quel minuto di celebrità che pezzo dopo pezzo costruisce un consenso in un popolo di conformisti. Eccolo un altro paradosso: il conformismo è diventato il regno dell’apparente anti-conformismo, il campo aperto in cui le grida si incrociano a vanvera, cercando vanamente di essere pensiero critico e riproducendo invece gli stessi meccanismi di un pensiero banalmente dominante, unico direi. Dove l’equilibrio delle opinioni, anche discordanti, lascia in ritirata il campo al paradosso delle contro-opinioni che non sono contro un bel niente, sono solo volgarmente interessate a un doppio fine e fanno impazzire le bilance del pensiero.

È passata un’era, anzi ne sono passate molte. Tanti fatti su cui i politologi si divertono un sacco. Fatto sta che le persone di potere che erano -idealmente parlando- i depositari della conservazione, oggi sono diventati i campioni dell’apparente radicalismo, dell’estremismo, dell’anticonformismo conformista, si muovono senza consistenza, allenandosi a far scivolare gli interlocutori dentro il mare della maggioranza. Idiozie conquistate a fatica sono i loro traguardi.

Parafrasando Pier Paolo Pasolini, non occorre essere forti per affrontare il senso comune (lui scriveva il fascismo: se guardiamo bene dentro le cose ci troviamo molte analogie) nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il senso comune -il non pensiero, il luogo comune- “come normalità, come codificazione, allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società”.

Quanti esempi si potrebbero fare nel regno delle banalità pericolose, del pensare “per sentito dire”. Un triste regno a cui si sta arrendendo un popolo così abituato a mettere sul rogo il pensiero indipendente da aver trasformato i suoi martiri in celebri simboli incompresi. Un popolo che nemmeno si accorge che vive ormai in un Limbo infernale molto meno dignitoso di un Purgatorio conquistato a fatica, al prezzo della propria vita, come il Catone a cui Virgilio si rivolge parlando di Dante nel primo Canto del Purgatorio.

Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”; ma che ve lo dico a fare quando già nell’antica Grecia a fatica si era capito, deciso, conquistato che per dire la verità bisognava alla fine dire tutto quello che ci passava per la testa (la nostra, non quella degli altri).

Oggi è più difficile pensare quello che si dice piuttosto che dire quello che si pensa. Ed è anche per questo che l’impresa eccezionale, datemi retta, è essere normali. Ormai quasi una trasgressione. La trasgressione dell’equilibrio, non dell’equilibrismo opportunista, ma della normalità.


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