Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Solidarietà & Volontariato

Il terzo settore e quella paura di fare utili

di Giulio Sensi

Incuriosiscono, e meritano un certo approfondimento se non altro culturale, quelle posizioni sulla riforma del terzo settore contrarie ideologicamente all’introduzione di qualsiasi forma di redistribuzione parziale degli utili e remunerazione del capitale investito per l’impresa sociale.

Occorre guardare al tema almeno da due punti di vista.

Il primo è quello economico: aver paura che permettere un certo tipo di profitto significhi snaturare il terzo settore è un sospetto fondato, ma liquidare così la questione è sbagliato. Perché uno dei mali di cui soffre il non profit (ammesso che esso coincida con il terzo settore) italiano è proprio il suo adagiarsi sempre meno comodamente all’ingessatura che negli anni si è costruito addosso.

Se naturalmente la leva per l’innovazione, il dinamismo, l’intraprendenza nel terzo settore è quella valoriale ed ideale, è da conservatori pensare che essa basti ad andare oltre le solite frontiere. Anzi, è vero il contrario. Poteva valere qualche decennio fa, oggi no. La leva economica, piaccia o no, è altrettanto importante per l’evoluzione del terzo settore. E va praticata. In questo senso i binari tracciati dalla Riforma del terzo settore -ammesso che venga veramente fatta- sono anche troppo cauti (molto è poi già previsto nell’ordinamento vigente) e rimandano ai decreti attuativi le scelte più importanti.

E non potranno che essere in linea con il regolamento comunitario in materia che mette al centro della questione l’utilizzo in primo luogo dei profitti per il raggiungimento dell’obiettivo primario dell’impresa (comunque anche la distribuzione ad azionisti e proprietari non può andare a discapito di questo).

La questione è specialistica e complessa, qua trattata semplicisticamente. Ma la critica secondo cui qualsiasi forma di remunerazione del capitale snaturerebbe irreversibilmente il terzo settore -e in particolare renderebbe l’impresa sociale un possibile spazio di elusione e privilegio- è ideologica. Con rispetto parlando.

Lo è perché fra il profitto e il divieto del profitto c’è uno spazio di manovra su cui il legislatore, e ancora di più il governo, sono chiamati a lavorare per fare in modo che una leva efficace venga prodotta e che qualcosa cambi. Il rischio semmai è che nello spazio di manovra l’impresa sociale ci sia così stretta da non averne benefici.

Il secondo punto di vista è più semplice ed è quello culturale. La paura di “tradimento” al solo parlare di profitto è roba da novecento, sempre con rispetto parlando. Anche perché l’unico terzo settore che può disinteressarsi della questione è quello che dipende da sicuri fondi, magari pubblici. Che, aldilà di marginali e possibili deviazioni note alle cronache anche giudiziarie, è sicuramente quello meno orientato al mercato e meno competitivo.

Forse non è nemmeno più quello maggioritario ed è e sarà sempre in calo. Quindi niente paura cari amici del novecento, la parola “utili” si può pronunciare e “parzialmente” praticare come ama scrivere il legislatore, pensando che “parzialmente” basti a calmare la furia ideologica dei contrari. Soprattutto quando si fa per crescere e creare opportunità. Quando lo si fa per evolvere e non per arricchirsi sulla pelle degli altri.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA