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La comunicazione del terzo settore ha bisogno di autostima

di Giulio Sensi

Nella sua comunicazione il terzo settore quasi sempre trascura un punto fondamentale: l’autostima.

Siamo tentati di utilizzare trucchetti e scorciatoie perché partiamo da un complesso di inferiorità spesso inconscio e dettato anche da una sorta di sudditanza alla comunicazione profit. Questa viene vista quasi sempre come professionale (e indubbiamente lo è spesso di più della nostra, ma meno di quello che pensiamo ed esposta anch'essa ai fallimenti), ma associando la professionalità alla perfezione, ci dimentichiamo un concetto fondamentale: la comunicazione non è mai perfetta. Non lo è perché ha a che fare con le persone, i loro umori, i pregiudizi, i sentimenti, le emozioni e soprattutto perché comunicare significa immergersi in ecosistemi che non funzionano come macchine, ma come insiemi di -talvolta imprevedibili- processi culturali e relazioni sociali.

Ha ragione dunque Paolo Iabichino quando suggerisce al terzo settore di non cercare scorciatoie come l’appalto agli influencer o la ricerca del virale o dei sensazionalismi ad ogni costo; in generale tutti quei processi emulativi che portano magari risultati di breve raggio, ma non creano ciò che nella comunicazione definita sociale è il vero risultato: il cambiamento culturale che è il terreno dove poi cresce al fiducia che nutre anche il sostegno economico (in termini di raccolta fondi) che è naturalmente necessario e che al mercato mio padre comprò (ops, scusate mi ero fatto prendere la mano, ma i collegamenti sono tanti).

Nel terzo settore ancora si continua a sottovalutare che la vera assicurazione sul futuro delle organizzazioni non è una polizza contro i rischi –compresi quelli da Covid19-, ma è la creazione di comunità. E le comunità si costruiscono se si è in grado di condividere all’interno e all’esterno valori e conseguenti azioni inclusive.

La comunicazione diventa quindi sociale: le pratiche sociali e le pratiche comunicative si intrecciano tra di loro, disegnando mondi completamente diversi e rinnovati rispetto anche al recente passato, rendendo i panorami sociali molto più complessi e articolati (Sensi – Volterrani, Perché comunicare il sociale, Maggioli Editore 2019).

Nuotare consapevolmente dentro questa complessità è una delle sfide culturali e comunicative del terzo settore. Per farlo le sue organizzazioni devono partire appunto dalla propria autostima: ciò che siamo e ciò che facciamo è la risorsa comunicativa più importante perché è l’ingrediente più autentico.

Usando una metafora un po’ rozza (e anche dolorosa in tempi di pandemia) è inutile improvvisarsi grandi e ricercati chef se il nostro punto di forza è essere i cuochi di un'apprezzata, gettonata e affollata osteria in cui si va non solo perché si mangia bene e a prezzi accessibili, ma anche perché si incontrano persone e si intrecciano relazioni.

Ecco allora che per comunicare bene servono naturalmente competenze e strategie, ma serve anche credere in ciò che si fa. Senza, naturalmente degenerare nelle manie di grandezze che rivelano a volte anche nel terzo settore un preoccupante scollegamento con la realtà (ma questa è decisamente un'altra storia).

Ben vengano poi le alleanze, i vip, gli influencer, i sostegni da amici influenti: ma non possono sostituirsi a ciò che siamo, a ciò che vogliamo. Senza un’accurata ricognizione delle risorse a disposizione il rischio di sprecare soldi e occasioni è molto alto. E non possiamo più permettercelo.


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