Sanità & Ricerca

Criteri di valutazione

di Don Tullio Proserpio

Nei giorni scorsi sono stato invitato, e ho partecipato, ad un incontro organizzato da uno degli ospedali di Houston. Presenti ricercatori, personale dell’amministrazione, clinici, ecc. L’incontro aveva il ‘semplice’ scopo di mostrare l’andamento della struttura sanitaria negli ultimi mesi. Come accade per ogni presentazione di questo genere, una serie impressionante di tabelle, grafici, linee di tendenza, ecc. Mi ha colpito in modo particolare quando uno dei relatori ha presentato alcuni dati centrando l’attenzione sulle valutazioni rispetto alle cure complessive offerte dalla struttura sanitaria.

Tra gli altri criteri vi erano ‘numero di persone decedute’; ‘tempi di degenza’.

Bisognerebbe capire maggiormente i dati presentati, (es. se i tempi di valutazione rispetto ai decessi si riferiscono ‘solo’ all’interno dell’ospedale oppure anche nei mesi successivi, ecc.), tuttavia mi è nata una riflessione che condivido. Premessa fondamentale: la malattia è un male, la sofferenza è un male, il dolore è un male, ecc., motivo per cui si lotta, particolarmente chi ne ha fatto il proprio servizio – medici, infermieri, ricercatori, ecc., – per sconfiggere tutto ciò e cercare di offrire nuova salute alle persone confrontate dalla malattia.

Ho pensato che se uno dei criteri utilizzati per valutare la bontà delle cure offerte è ‘numero delle persone decedute’, la cosa mi lascia alquanto perplesso?!?!

Sembra quasi si voglia pretendere di sconfiggere la morte, cosa altamente improbabile, stante le conoscenze attuali. Non solo, questa pretesa prometeica, mi sembra nasconda anche altre insidie. Se così fosse, ogni volta che muore qualche persone in cura presso una struttura sanitaria, mi chiedo, è un fallimento? Non si insinua in questo modo il poter pensare di essere invincibili? Sempre all’altezza della situazione?, Sempre in grado di risolvere un problema? Sempre con la capacità di controllare la situazione, ecc.? (Mi sembra che la nostra cultura spinga decisamente in questa direzione).

Non solo. Mi sembra inoltre che delineare questo tra gli obiettivi da raggiungere porti a vivere in modo frustrante la professione medica, infermieristica, ecc. Perchè, con buona pace di tutti, credenti, non credenti, cristiani, non cristiani, ecc. tutti siamo incamminati verso la morte. Morte che per alcuni è la fine di tutto, per altri è il fine, un doloroso passaggio verso un Oltre, verso il Paradiso, la comunione piena con quel Dio rivelato da Gesù Cristo che ci ha chiamato all’esistenza e custodisce i nostri passi.

Tenendo ben presente la premessa detta sopra, che senso ha mettere ‘numero di persone decedute’ tra i criteri di valutazione di una struttura sanitaria? Ciò significa che se muoiono molte persone la struttura non è valida e viceversa? Si corre il rischio, lo sappiamo tutti, di ‘non far morire nessuno in ospedale’, semplicemente dimettendo prima della morte le persone ammalate! (Stesso discorso vale per i tempi di degenza!). Forse è anche questo uno dei motivi per cui talvolta gli stessi medici (chi mi conosce sa la stima profonda e sincera che nutro verso questa categoria di persone, insieme agli infermieri, personale di cura ecc.), si ‘allontanano’ dall’ammalato (forse anche inconsapevolmente) quando questo si avvicina alla morte stessa, affidando alle mani esperte i momenti ultimi dell’esistenza umana del paziente?

Chi condivide costantemente la vicinanza con le persone ammalate sa bene di come e quanto lo stesso paziente, frequentemente, è consapevole della propria condizione e che probabilmente per lui/lei ‘non c’è molto da fare’ per evitare la morte, e che ‘questa è la vita’. Non è vissuta da loro la morte ormai imminente come un ‘fallimento’. ‘Mi stanno curando proprio bene’; ‘non mi lasciano solo’; ‘i miei cari rimangono sempre qui con me’; ‘ci vorrebbero molti medici così’, ‘ci vorrebbero altri ospedali come questo’, ecc.

Potrei continuare per giorni a scrivere di quanto positiva è stata l’esperienza di queste persone che sono successivamente morte. Dobbiamo ritenere che sia stato tutto e sempre un fallimento? Credo di sapere bene che si potrebbero citare invece esperienze contrarie e che il discorso cambia notevolmente quando ci sono ragazzi giovani, adolescenti, giovani mamme, papà, ecc. ammalati. Tuttavia anche tra i ragazzi e i giovani, talvolta abbiamo vissuto esperienze incredibili! Eppure ragazzi, adolescenti, giovani, che hanno lasciato un grande vuoto e profonde ferite nel cuore e nelle vite delle persone a loro care. Mi chiedo, non è forse utile cercare di capire – per quanto umanamente possibile – cosa sta vivendo la persona in quel particolare momento, come vede il futuro davanti a sè? Perché non domandare alla persona cosa desidera in quel momento? Quali aspettative, ecc.? Siamo così certi che chiederebbero di poter continuare a vivere? (non vuol dire cadere immediatamente in altri complessi argomenti). Ma sappiamo tutti che questo chiede tempo… e che forse alla base vi e’ un problema culturale e il discorso andrebbe per le lunghe, forse per un’altra riflessione.

Credo che altri criteri (insieme alla patient satisfation) dovrebbero essere tenuti in considerazione per valutare la bontà di una struttura sanitaria (es. se la persona è stata seguita, curata e accompagnata in tutte le fasi della malattia sin dall’esordio ecc.) e sostenere concretamente quanti, giorno dopo giorno, in modo indefesso spendono la propria esistenza a favore delle persone che vivono la stagione della malattia e della fatica! Anche gli operatori sanitari diventano segni, io credo, in grado di Rivelare una Presenza Altra. Piccoli, e talvolta, invisibili segni capaci di sostenere il passo quotidiano e offrire sempre nuova speranza.


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