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Storia dell’arte, una questione sociale

di Giuseppe Frangi

Povera storia dell’arte. Non bastava l’emarginazione fatale conseguente all’applicazione delle riforma Gelmini. A rendere più amara la ferita sono periodici falsi annunci di ripensamenti. L’ultimo è circolato un po’ all’impazzata nei giorni scorsi (qui trovate una buona ricostruzione). Certo, solo un feroce autolesionismo può spiegare il fatto che l’insegnamento sia stato abolito ad esempio negli istituti tecnici con indirizzo turismo (resta nel tirennio con due ore settimanali), in quelli con indirizzo Grafica e comunicazione (cancellata totalmente!), negli istituti professionali di Operatore grafico o di Tecnico della moda. Che il cursus “nobile” degli studi, quello liceale fosse cosa segnato da un’impronta crociana-gentiliana che ha messo la Storia dell’arte tra le materie minori è cosa nota e difficilmente raddrizzabile (si elgga il bell’articolo su storiedellarte.it). Ma andare a penalizzare i percorsi formativi che dovrebbero coltivare nei limiti del possibile il “gusto” italiano, è operazione che sfiora davvero il masochismo. La storia dell’arte è fondamentale per alimentare una cultura grafica o per tenre viva quella straordinaria filiera che resta la moda (basti vedere il ricorso che i maggiori stilisti stanno facebdo negli ultimi anni ad immagini prese dall’arte per i loro modelli, Dolce & Gabbana e Prada su tutti).

La storia dell’arte ha la natura straordinaria di disciplina ponte: cioè tiene insieme il profilo culturale (che è altissimo e secondo a nessun’altra disciplina), con la materialità del fare. Nel momento in cui ci si accorge di come la scuola sia astratta, slegata da tutti i processi reali del mondo del lavoro, dare spazio alla storia dell’arte era come avere una disciplina capace di inglobare una “materialità”, una concretezza legata ai processi di produzione di ogni manufatto. L’arte è il vertice di quella vastissima zona dell’agire umano in cui entra in azione “la mano che pensa”, secondo la felicissima formulazione di Ricard Sennett. E la “mano che pensa”, è sempre Sennett a sostenerlo, è uno dei fattori chiave del futuro, capace di declinare intelligenza, poesia e tecnica: la sinergia mente-mano-desiderio-ragione, ha fatto grande il mondo occidentale e forse può oggi restituirgli saggezza, con il modello delle “botteghe” italiane indicate a riferimento globale.

Infine, c’è anche una resposnabilità da non nascondere sotto il tappeto. La storia dell’arte è stata tendenzialmente insegnata male nelle scuole italiane (e non solo lì). E non c’entra solo quell’esercizio di astrazione che è stato il manuale di Argan, così purtroppo egemone. C’entra una certa pigrizia, un’applicazione molto ripetitiva delle solite categorie, una mancanza di passione; soprattutto una ritrosia a raccontare la storia dell’arte anche nei suoi decisivi aspetti materiali (persino un super erudito come Umberto Eco si è trovato a sostenere che la Gioconda è una tela, quando invece è una tavola: sintomo che non si guarda mai alla materialità dell’oggetto).

Tornando a noi: difendere la storia dell’arte è molto di più che una battaglia culturale, a tutti gli effetti una battaglia “sociale”. Sottraendola, ci viene sottratto un sapere da cui dipende il meglio del nostro futuro.


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