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Quel murales cancellato a Genova

di Giuseppe Frangi

 

Questi i fatti in sintesi: il 4 ottobre scorso, in un incidente d’auto in via di Francia a Genova, moriva un ragazzo di 23 anni, Mattia Medici. Via di Francia è la strada che corre sotto la sopraelevata che attraversa la città, e su uno dei piloni, in prossimità del luogo dell’incidente, gli amici di Mattia, un gruppo di writer milanesi, ne avevano dipinto un ritratto. Un gesto semplice d’affetto che aveva riscosso la simpatia di tutti. Ma qualche premuroso funzionario un paio di giorni fa ha pensato bene di dare una mano di bella vernice grigia uniforme per cancellare l’immagine “dipinta senza permesso”.

Sulla stupidità di tanta solerzia è inutile neanche discutere: oltretutto è un gesto che ha ferito anche la madre del ragazzo aggiungendo dolore all’immenso dolore con cui deve convivere. Ma il ragionamento che andrebbe fatto deve partire da un altro punto: cioè dal bisogno di quei ragazzi di mostrare il volto del loro amico in un cospetto pubblico. È un bisogno molto umano, che evidentemente non aveva nessuna valenza di denuncia; un bisogno che tutti avvertiamo nel momento in cui perdiamo una persona a cui vogliamo bene. È un bisogno antico come la storia dell’uomo, se pensiamo ad esempio a quelle meravigliose immagini dei defunti dipinte a El Fayum, nell’Egitto romano, arrivate sino a noi. Ogni amico ha un volto ed è un volto che neanche la morte può cancellare, sembrano dire con il loro esercizio istintivo quei ragazzi che volevano bene a Mattia. Rappresentare il volto non risponde solo al desiderio di renderlo presente, ma porta a galla un altro desiderio sommesso, non dichiarato, forse neanche consapevole: che quel volto non si perda inghiottito dal tempo. Che sia un volto per l’eternità: c’è come uno struggimento nella sincerità di quel gesto di dipingere il volto dell’amico, che non riesco a spiegare se non in questo modo.

Ho sempre pensato che bisognerebbe un giorno documentare il modo con cui le persone, nelle nostre città, ricordano le vittime della strada. Sono sempre installazioni povere, improvvisate, spesso di dubbio gusto, ma che comunicano immediatamente una commozione. Una componente che non manca quasi mai è proprio la fotografia: e vedendola viene sempre da pensare a che tipo fosse, perché passasse proprio di lì, cosa oensasse in quell’istante. E viene da pensare a chi  – la mamma, un amico, una fidanzata… – abbia messo quell’immagine. E che senso di consolazione abbia provato a compiere quel gesto. Sono piccoli atti di una pietà che non ha più parole per dirsi, ma che l’uomo non può tener dentro, deve in qualche modo condividere. Colpisce che in questi piccoli cimeli non ci sia mai spazio per il rancore verso chi, a volte, ha provocato quel dramma. Semmai c’è spazio per qualche aggettivo sopra le righe, un po’ guascone, per qualche battuta sin troppo amicale (“ciao bestia” avevano scritto gli amici sotto il ritratto di Mattia).

Nelle persone oggi c’è spesso un’afasia davanti all’esperienza del dolore; si resta come ammutoliti, senza parole che aiutino a trovare un bandolo di senso. Così gli altarini sono come dei tentativi ingenui di dire la cosa che non si riesce più a dire. Poi il tempo allenta la pressione del dolore, e la città si rimangia poco alla volta immagini, fiori, scritte. Così sarebbe accaduto anche al volto di Mattia: e non c’era bisogno di quell’inutile gesto anonimo di un funzionario stupidamente solerte.


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