Luoghi del gioco: miseria simbolica o qualità affettiva

di Marco Dotti

Un campo in cemento, un pallone, una rete sgualcita eppure… Eppure  si giocava così. Quello che poteva apparire il più spoglio e povero dei luoghi, sapeva rivelarsi carico di senso e di storie, perché di storie e di senso si nutre un luogo. Un luogo è uno spazio vissuto. Uno spazio di vita, e  il vissuto ne determina la qualità forse più di organi altra cosa. La qualità affettiva di un luogo non si può misurare, non è garantita da nessun certificato, ma si sente. La garanzia sono gli uomini e le loro storie.

Al contrario, il più ricco, attrezzato e moderno dei luoghi può essere  nient’altro che il segno di quella che un ricercatore molto attento alle dinamiche del moderno, Bernard Stiegler, ha chiamato “la miseria simbolica”. Lo spazio che circoscrive questa miseria è quello tipico delle modernissime cattedrali della solitudine, dove lo spettatore è anche attore, perché così chiede la logica, e l’attore – il giocatore – tutto può fare, purché lo faccia in nome esclusivo del marketing e del consumo. Sponsor e commerci sono sempre esistiti, ma è questa “esclusiva” a convertire i mezzi in fini e a pervertire miseramente il tutto.

Abbiamo così luoghi materialmente poveri, ma simbolicamente ricchi e luoghi dove la miseria è quasi un correlato dello sfarzo. Questo ci dice quanto possa essere importante un luogo per le buone pratiche del gioco. È sempre questa miseria simbolica, infatti, a degradare il gioco, ogni gioco, a puro evento di marketing. Senza gesto, senza storia, senza sudore, senza fatica e senza riscatto.  L’incantamento del mondo, prodotto dal vero gioco, viene allora scalzato dal divertimento, componente necessaria del gioco, ma non la sola. Di diploma, squadra, abilità, competizione, regole: tante cose fanno del gioco un gioco. Il solo divertimento è un gioco a metà. Anzi, è illusione. Amusing ourselves to death, scriveva negli anni Ottanta, con toni quasi profetici, il grande Neil Postman, e Roger Waters, lasciati i Pink Floyd, nel 1992 gli rifaceva il verso cantando la tragedia di una specie in via di estinzione: «Bartender what is wrong with me? Why am I so out of breath?” The captain said “excuse me ma’am This species has amused itself to death” Amused itself to death It has amused itself to death».

https://www.youtube.com/watch?v=uVSBawXaoT4

Divertirsi fino alla morte davanti a uno schermo, questo era il problema denunciato da Postman. Oggi li vediamo, piegati nei bar dinanzi a una slot machine. Sono migliaia i giocatori compulsivi, 800.000 solo in Italia secondo le stime meno severe, circa 2.000.000 secondo quelle dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Che cosa fanno? Giocano? Si arricchiscono? Uomini senza ambiente, senza luogo, senza movimento, seduti e con gli occhi vuoti, “giocano” senza squadra incantati dalle luci e dai suoni di una macchina coltivano una miseria simbolica che non è solo loro, ma di tutti, perché è segno del degrado dei nostri luoghi.

Luoghi dove il vissuto è ridotto a sofferenza e il divertirsi – Postman e Waters ci avevevano visto giusto – fa rima col morire. Tornare a quei campetti diroccati è l’unico modo per uscirne. Saranno pieni di erbacce e con le righe sbiadite, ma la loro bellezza è ancora lì: ci dicono di un gioco, un vero gioco, che non deve finire. O finiremo anche noi.

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