Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Andrea Fontana

Dallo storytelling al capitale narrativo: vivere e raccontarsi nell’era dei deep media

di Marco Dotti

Abbiamo tutti bisogno di raccontare. È sempre stato così ed è ancora così. Poiché noi esseri umani siamo le nostre storie e le storie hanno bisogno di essere raccontate. Ma lo storytelling è ben più di un “raccontare storie”: è organizzazione di pensiero e di vita che permette alle aziende e ai singoli di incrementare il proprio capitale narrativo. Ne parliamo con Andrea Fontana, imprenditore, sociologo, docente universitario, pioniere dello storytelling in Italia

Narrare necesse est. Abbiamo tutti bisogno di raccontare. «È sempre stato così ed è ancora così. Poiché noi esseri umani siamo le nostre storie e le storie hanno bisogno di essere raccontate». Lo insegnava Odo Marquard, figura tra le più autorevoli nello studio della sensibilità estetica contemporanea.

Le attività umane che prevedono l'uso delle storie sono virtualmente infinite e ogni volta che narriamo una storia entrano in gioco i nostri circuiti cerebrali. Siamo, letteralmente, fatti di storie.

Lo storytelling, spiega Andrea Fontana – sociologo della comunicazione, Premio Curcio alla cultura 2015 docente di Corporate Storytelling all’Università di Pavia e Presidente Storyfactory – serve per creare significati che creano a loro volta legami. In una parola: story-driven content. Legami con il pubblico, legami le comunità. Legami di vita.

Oggi, a dieci anni dall'ingresso del termine e della scienza della narrazione in Italia, è opportuno ricordare che storytelling è ben altro da un assemblaggio, più o meno riuscito, di tecniche di narrazione. «Lo storytelling è un mindset: è la piattaforma di vita e di lavoro in cui esistiamo», spiega Fontana. Anche perché viviamo in un content continuum, un flusso dove siamo costantemente sotto assedio testuale e visivo. Il tutto in uno spazio simbolico in cui contenuti di ogni genere e forma competono tra loro.

In un solo minuto, su Instagram, vengono caricati 337mila post. Ogni nostro gesto, on e off line, è sempre on life, ovvero esposto e incardinato in trame narrative. È una fiction economy, dove il capitale narrativo acquista una valenza sempre più strategica. Poiché la narrazione, spiega Fontana, «è diventata un asset strategico nel business e una competenza chiave nel branding nella gestione del cambiamento personale e organizzativo», la capacità di valorizzare il capitale narrativo di cui disponiamo, in un contesto dove l'attenzione è merce sempre più scarsa – e sempre più richiesta – può rivelarsi una risorsa vitale.

Fontana ha recentemente individuato – in uno speciale a cura Storyfactory pubblicato con Harward Busness Reviev Italia – quattro fasi, che contraddistinguono questi 10 anni di storytelling in Italia: una fase scettica, tra il 2009 e il 2011, una fase istintiva, fino al 2014, una fase romantica, dal 2014 al 2018, e una fase mainstream, iniziata nel 2018 e tutt'ora in corso. Partiamo da qui.

Storytelling: piattaforma di vita

Dieci anni fa, di storytelling quasi non si parlava. Che cosa è cambiato in questi anni?
Per parlare di storytelling dobbiamo innanzitutto capire i grandi cambiamenti che sono avvenuti nel modo in cui comunichiamo. È cambiata la modalità con cui costruiamo e condividiamo la conoscenza. Se prima ci muovevamo in una forma di conoscenza derivata da fonti oggettive, adesso l’individuo e la soggettività hanno la meglio. Da una conoscenza oggettiva siamo dunque passati a una conoscenza soggettiva e dunque autobiografica, sempre più basata sulle proprie esperienze personali e la propria storia di vita personale. Comprendere questo passaggio, permette di capire perché, ad un certo punto, si inizia a parlare sempre più di storytelling. Lo si fa perché il racconto è diventato una piattaforma di vita e di business. La questione che oggi ci dobbiamo porre è come la narrazione, i racconti personali, di marca o di individuo, sono diventati preponderanti.

Quindi lo storytelling non è una disciplina o una tecnica?
Non c’entrano nulla la disciplina o l’approccio. Lo storytelling è una modalità diversa con cui le persone si relazionano le une alle altre e attraverso la quale si coinvolgono. Poi diventa approccio e tecnina. L’informazione lineare descrittiva non è più coinvolgente o è meno coinvolgente che in passato. Ovviamente, se lo storytelling è una piattaforma di vita e di business è anche una competenza, che bisogna padroneggiare e saper costruire. Ma fare storytelling non significa “raccontare storie”, come generalmente si traduce – male – il concetto. Fare storytelling significa comunicare attraverso racconti cioè rappresentazioni significative che partono da proprie esperienze di vita e sono tendenzialmente emozionanti perché recuperano e mettono in scena un vissuto personale.

Questo vale anche per le organizzazioni…
Quando parliamo di “soggetto” intendiamo tanto il soggetto personale quanto il soggetto organizzativo e, di conseguenza, quando tutto viene esteso al marketing o al branding parliamo di branding personale, organizzativo, istituzionale o aziendale.

Il capitale narrativo è la nostra narrabilità e memorabilità (narrability), è la somma dei contenuti che fanno di noi ciò che siamo, orientando il nostro vissuto di vita o di lavoro, tanto da renderlo condivisibile con gli altri e accettato dagli altri. O persino comprato

Andrea Fontana

Chiunque abbia qualcosa di sé da raccontare deve fare i conti con questo mindset che è lo storytelling…
Oggi tutti ci raccontiamo. Ci raccontiamo sui social media, nel web. Ci raccontiamo per la vita e per il lavoro. C’è chi lo fa meglio e c’è chi lo fa peggio e c’è chi si limita a mettere una foto su Instagram, ma il semplice gesto di mettere quella fotografia o scrivere un post non significa necessariamente fare storytelling. Il racconto, come tecnica espressiva di sé, non tanto come tecnica manageriale, è l’elemento che permette di coinvolgere e costruire identità e definire e costruire relazioni.

Coinvolgere è la parola chiave, dunque. Attraverso il coinvolgimento si può valorizzare o attivare una sorta di bringing capital, un capitale di storie che gettano ponti tra soggetti…
La comunicazione classica descrittiva, da cui tutti proveniamo, è basata sui key-message: le informazioni specifiche che una persona, un brand, un’azienda ti devono trasferire. Mentre lo storytelling è basato sulle key-emotions: sono le emozioni chiave che devono arrivare dritte al cuore. Le informazioni, che comunque ci devono essere, arrivano dopo. Pensiamo a Shakespeare e a che cosa resterebbe se togliessimo alla sua opera l’invidia, la gelosia e il tradimento, che sono emozioni e sentimenti, oltre che azioni. Per questa ragione dico che è fuorviante tradurre il termine “storytelling” con “raccontare storie”.

Più che una storia, diremmo che è una dinamica…
Lo storytelling è la dinamica che coinvolge, partendo da emozioni chiave. Il fatto che, poi, questa dinamica riguardi un individuo che diventa influencer o il racconto di una marca che diventa portatrice di nuovi valori di consumo cambia poco. La dinamica è la stessa e la chiamiamo, appunto, storytelling.

Dobbiamo diventare consapevoli di quelli che, per noi, sono i significati di vita e di lavoro. Diventando al tempo stesso consapevoli dei significati degli altri. Il grande tema è dunque il significato. Se il mio significato incontra il tuo significato e c’è una forma di tolleranza, rispetto e confronto allora riusciremo a convivere. Se il significato diventa rigido e univoco, allora diventa una “Verità” rigida e univoca che deve sopraffare

Andrea Fontana

Capitale narrativo e narrability

Lei ha recentemente parlato di capitale narrativo, un termine spiazzante e denso di significato. Ci aiuta a definirlo?
Ho provato a definire questo concetto in un lavoro di qualche anno fa intitolato: Storytelling d’impresa, edito da Hoepli. Diciamo così: ogni individuo, società, organizzazione, prodotto ha le sue storie. Le sue narrazioni fondanti. Queste forniscono senso e destinazione alla vita, al lavoro o al consumo. Cosa sarebbe uno yogurt se non fosse posizionato in un certo modo nel mercato? Un semplice prodotto naturale. Invece può diventare: “naturalità”, “gusto”, “sensualità”, innalzamento delle “difese immunitarie”, etc. etc.

Il capitale narrativo è la nostra narrabilità e memorabilità (narrability), è la somma dei contenuti che fanno di noi ciò che siamo, orientando il nostro vissuto di vita o di lavoro, tanto da renderlo condivisibile con gli altri e accettato dagli altri. O persino comprato.

Il capitale narrativo diventa quasi un “prodotto”
Esattamente, anche se il termine prodotto può sembrare unfair. Potremmo dire che il capitale narrativo permette alla nostra vita di diventare un elemento di condivisione e di esemplarità per gli altri. Riepilogando, se siamo in grado di raccontarci generiamo narrability, ossia contenuti orientati che lasciano un significato collegato al vissuto degli altri , la narrabilty poi porta ad avere capitale narrativo. Accumulazione di contenuti significativi per me e per gli altri, senza i quali tutto perde di senso. È quindi qualcosa di rilevante!

Se senza il capitale narrativo vali “1”, nel mercato dell’attenzione la narrability estende il tuo capitale narrativo da “1” a “n” volte. Generalmente si ritiene che questa estensione sia da 1 a 37. Un algoritmo elaborato da studiosi americani che ci permette di capire come grazie alla narrabilità si può aumentare il proprio valore di partenza anche economico nel percepito sociale.

Trova ancora resistenze in Italia a discorsi di questo tipo? Glielo chiedo, perché ho l'impressione che molte organizzazioni ancora puntino su approcci lineare, anche quando devono emozionare e coinvolgere.
Siamo passati dalla dimensione istintiva dell’approccio narrativo a una dimensione sempre più scientifica e organizzata e organizzativa. C’è ancora molta strada da fare, soprattutto in Italia dove si sente ancora dire che lo storytelling sia una moda, mentre oramai nel mondo il dibattito è andato persino oltre… perché si dà per assodato che lo storytelling come competenza di base manageriale ed esistenziale è ineludibile. In senso lato, però, le aziende stanno maturando la consapevolezza che per tutto il tema dell’intangibile, del percepito, della reputazione, oggi, nel regno dei deep media, che sono media che ci portiamo addosso e raccolgono le nostre storie di vita, queste tecniche fanno la differenza.

Regimi di verità

In un altro ambito della sua ricerca – o meglio: da un'altra prospettiva – lei si è occupato di rapporto fra vero e falso Ha da poco pubblicato un volume davvero interessante, Regimi di verità (Codice edizioni, 2019, pagine 148). Il termine richiama alla mente gli studi di “microfisica del potere” di Michel Foucault, che non a caso invitava a tener sempre conto dell'ordine del discorso per configurare ciò che chiamiamo "verità"…
Ovviamente sono debitore verso Foucault. Ma in Regimi di verità non mi concentro sul dibattito verità vs. falsità, quanto sulla nuova, tragica ed entusiasmante, relazione esistente tra verità vs verità. Questo punto è, a mio parere, rilevantissimo e la narrazione prende parte a questo un gioco fondamentale. Di conseguenza, conoscere tecniche e avere competenze narrative permette di giocare ad armi pari questo gioco. Siamo davvero entrati in una dimensione in cui la conoscenza personale è più importante della conoscenza istituzionale e oggettiva e ognuno, oggi, si costruisce le proprie conoscenze e le proprie esperienze…

Se le costruisce nel bene e nel male….
Chiaramente, ma è una dinamica in corso e la dobbiamo comprendere. Tutti – affetti dalla cosiddetta sindrome di Dunning Kruger ci crediamo esperti in qualcosa; siamo tutti medici di noi stessi, avvocati di noi stessi, ingegneri di noi stessi: basta andare online e ci sentiamo padroni di ogni conoscenza. Ecco allora che chi è capace di raccontare meglio una conoscenza o un’informazione o – passatemi il termine – una verità si impone sugli altri. Ognuno di noi, oggi, vive all’interno di regimi di verità che lottano per imporsi. Sempre da questo punto di vista, più sostieni che la verità dell’altro è falsa – anche se lo fai su basi oggettive – e più l’altro ti accusa di essere nel falso e di avere complicità con qualche potere “strano” che ti obbligherebbe a fare quello che stai facendo. Per questa strada non se ne esce.

Ognuno di noi, oggi, vive all’interno di regimi di verità che lottano per imporsi. Sempre da questo punto di vista, più sostieni che la verità dell’altro è falsa – anche se lo fai su basi oggettive – e più l’altro ti accusa di essere nel falso e di avere complicità con qualche potere “strano” che ti obbligherebbe a fare quello che stai facendo. Per questa strada non se ne esce

Andrea Fontana

I rapporti, anche i rapporti di forza, si giocano allora sul terreno della competenza narrativa?
Se nel tempo riesci a sviluppare competenze narrative, ti rendi conto che molta della conoscenza che hai costruito è parte di un racconto personale. Il che non significa che sia falsa, ma che è significativa per te. Se lo è per te, però, non è detto lo sia anche per altri. Se vogliamo è un vecchio tema epistemologico, ma se fino a pochi anni fa questi temi epistemologici erano appannaggio di psicologi e filosofi chiusi nelle loro biblioteche, oggi con i deep media diventano questioni di vita quotidiana. Facciamo un esempio: immaginiamo di essere appassionati di cucina. Facciamo foto e video online e costruiamo intorno alla cucina un business. Questa nostra passione creerà anche dei follower attorno a noi, che crederanno nei nostri piatti e metodi. Il problema sorge quando la mia conoscenza della cucina vuole imporsi su quella degli altri e il mio modo di fare cucina vuole rappresentarsi come l’unico possibile.

Il grande tema della tolleranza tra le conoscenze reciproche e l’intolleranza per ogni differenza riemerge da tutti i lati della nostra vita. Tanto da esempi apparentemente innocui come quello che ho appena fatto, quanto sul piano dei conflitti di potere geopolitici…

Questo approccio fra più forme del vero può aiutarci a introdurre il dubbio del non assoluto nel contesto altamente polarizzato dei deep media…
Ci apre o dovrebbe aprirci a questo dubbio. Ma dovrebbe aprirci anche al valore della significatività. Nei grandi racconti non c’è “Verità”. I grandi racconti sono costruzioni della creatività e della sensibilità umana. Anche nel cinema sappiamo benissimo che la spada laser non è una spada laser, ma sospendendo l’incredulità per un momento, ritenendo significativa quella cosa, ci credi. Questo è l’altro grande tema che ci si presenta oggi: dobbiamo diventare consapevoli di quelli che, per noi, sono i significati di vita e di lavoro. Diventando al tempo stesso consapevoli dei significati degli altri. Il grande tema è dunque il significato. Se il mio significato incontra il tuo significato e c’è una forma di tolleranza, rispetto e confronto allora riusciremo a convivere. Se il significato diventa rigido e univoco, allora diventa una “Verità” rigida e univoca che deve sopraffare. E qui uso il termine verità in senso epistemologico non religoso.

Anche la narrazione di questa “Verità” rigida e univoca diventa una sopraffazione, da qui il grande tema dell’infowar…
Nelle geopolitiche di costruzione del potere questo è un approccio molto usato, per cui a seconda del racconto che porti in una comunità puoi polarizzare le emozioni pro o contro quel tipo di contributo che stai portando. C’è una grande responsabilità, oggi.

Da parte di chi c’è questa responsabilità?
Nei pubblici, che hanno la responsabilità di decriptare le narrazioni di costruzione e diffusione della conoscenza. Da parte degli opinion leader o dei makers politici altrettanta responsabilità nel costruire narrazioni positive e non tossiche. Tossiche sono le narrazioni basate sulla paura, sulla polarizzazione, sull’induzione estrema alla presa di posizione che portano a comportamenti molto aggressivi nella realtà.

D’altronde, se prendo un bambino e per i primi anni della sua infanzia e della sua fase evolutiva lo investo di narrazioni in cui la paura, la violenza, la negatività e la polarizzazione diventano il cardine… questo bambino avrà qualche problema di comportamento. E così assistiamo a questa pedagogia nera anche nella nostra quotidianità mediatica.

Quid est veritas?

Il capitale narrativo, dal punto di vista sociale, è una forma di legame e di ecologia delle emozioni. La condizione di dissipazione emotiva indotta da stati tossici e nervosi può invece portare a un’involuzione del legame sociale…
Noi impariamo perché ci emozioniamo, se non ci emozionassimo non riusciremmo a trattenere nessuna informazione e conoscenza. Le emozioni sono il punto di partenza di ogni conoscenza, ma proprio per questo chi è in grado di manipolarle (in senso negativo) o come gestirle (in senso positivo) può fare o un grave danno o un grande servigio alla comunità umana.

Vecchio tema anche questo, nulla di nuovo…
Nulla di nuovo, ma i deep media hanno dato un grandissimo potere a noi come cittadini, consumatori, utenti finali della conoscenza… ma forse non siamo così abituati e pronti a usare questo potere. I deep media sono strumenti di manipolazione profonda della realtà e li usiamo come se fossero radio e televisioni portatili, che già erano strumenti di cambiamento del reale, ma erano strumenti passivi. I deep media permettono a tutti di cambiare la realtà: se faccio una fotografia, uso un filtro, ci metto un hashtag e ho mille followers quella foto diventa la realtà per me e gli altri. Se, invece, assumo consapevolezza che sto facendo una foto e sto operando alla costruzione di una conoscenza che, in quel momento, non è oggettiva ecco che sto mettendo un filtro conoscitivo a una dinamica di costruzione di conoscenze reciproche. Invece oggi stiamo assistendo a intrecci di racconti dove il racconto più forte prende il sopravvento: è quasi una battaglia narrativa, dove chi ottiene la supremazia costruisce il regime di verità entro il quale tutti gli altri si muovono. Nel male o nel bene.

La battaglia del soft power si gioca a questo livello…
… Ma essendo una battaglia geopolitica decisiva è probabile che vi si giochi anche il futuro della democrazia. Le vecchie riflessioni epistemologiche sulla verità sono diventate pratiche di vita quotidiana. Parafrasando un bellissimo libro di René Girard (Vedo Satana cadere come la folgore) potremmo dire che oggi un post cade come la folgore. Il potere di influenza di un post può essere potenzialmente deflagrante, dobbiamo diventare consapevoli di questo potere. L’operazione vera che dobbiamo impegnarci a fare è il lavoro su questa consapevolezza.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA