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Marta Sachy

«Basta pietismo, capitale umano e innovazione per rilanciare l’Africa»

di Veronica Rossi

Un continente che ha molte risorse - sia in termini umani che di materie prime - e in cui tanti giovani hanno voglia di fondare imprese innovative, ad alto impatto sociale. La Fondazione Aurora si occupa di sostenere alcune di queste realtà nel loro percorso di crescita. La dirige un'antropologa italo-africana

L’Africa è un continente ricchissimo di risorse che, tuttavia, ha una storia di saccheggio e depredazione da parte del Nord del mondo. Nel Continente, però, sempre più giovani – spesso con una storia di studio all’Estero e di ritorno al proprio Paese d’origine – hanno voglia di mettersi in gioco per sviluppare un’imprenditoria locale, che possa interfacciarsi alla pari con gli attori economici globali. Per la cooperazione internazionale, quindi, è finita la stagione degli aiuti calati dall’alto, che spesso hanno un impatto positivo limitato al solo periodo del progetto a cui sono legati; serve un lavoro orizzontale, che capovolga l’approccio, da top-down a bottom-up, dall’imposizione all’ascolto. Di questo e di altro abbiamo parlato con Marta Sachy, antropologa, attivista e direttrice della Fondazione Aurora, organizzazione non profit che affianca le aziende africane innovative e ad alto impatto sociale in un percorso di promozione e di crescita.

Partiamo dalla sua storia personale, profondamente legata al suo lavoro.

Sono italoafricana: padre comasco, madre mozambicana. Fin da piccolissima mi sono resa conto che l’unica differenza tra me e i miei cugini in Mozambico era la pura casualità: io ero nata in Europa, loro in un Paese africano durante una guerra civile. Nel mondo ci sono tante disuguaglianze dovute, principalmente, a questioni di fortuna o sfortuna.

Ed è questo che l’ha portata a scegliere un percorso formativo e di vita legato alla cooperazione allo sviluppo?

Sicuramente è stato uno dei fattori determinanti. Ho studiato antropologia sociale e development studies all’Università del Sussex; c’era un programma di volontariato delle Nazioni Unite (Unv) a Salvador de Bahia, la città più nera fuori dall’Africa, a cui ho partecipato. Sono stata là per qualche tempo, ma poi ho sentito un forte desiderio di tornare alle radici, così ho deciso di andare in Mozambico, dove ho lavorato nella cooperazione internazionale.

Però poi, in Brasile, ci è ritornata.

Per un Master of Philosophy in Salute pubblica. Era l’epoca in cui per la prima volta era salito al potere Lula, il tempo della cooperazione Sud-Sud, più orizzontale e meno top-down. Tornata in Italia, ho lavorato al ministero degli Esteri; poi quattro anni fa sono stata chiamata a dirigere la Fondazione Aurora, dove, già nel documento programmatico, ho potuto far confluire le mie idee, su quello che funziona e quello che non funziona della cooperazione internazionale.

E cos’è che non funziona?

Si investe poco sulla forza del Paese in cui si agisce, non c’è abbastanza riconoscimento delle professionalità locali. In Africa l’imprenditorialità c’è. Ovvio, c’è anche una differenza culturale, che però è la stessa che possiamo riscontrare – per esempio – se un americano viene ad aprire un’azienda in Brianza. In sostanza, la cooperazione non dovrebbe essere calata dall’alto, ma dovrebbe aprirsi a un’ottica di ascolto e di dialogo, cercando di rispondere a esigenze specifiche. Noi alla Fondazione Aurora cerchiamo di adottare un approccio il più possibile bottom up, partendo delle necessità e dai bisogni segnalati da chi vive e conosce i contesti in cui operiamo.

Su cosa lavorate?

In Africa ci sono tanti giovani con un grande senso dell’innovazione, technolgy prone, persone che magari hanno studiato e vissuto fuori e vogliono tornare per creare imprese a forte impatto sociale. Puntiamo quindi su imprese giovani, facendogli fare uno scale up e accompagnandole in modo che possano accedere a dei fondi per ampliarsi, portando un valore aggiunto a tutta la comunità.

In che modo scegliete le realtà da sostenere? C’è un controllo sulla loro eticità?

Noi abbiamo sempre avuto una “terza gamba”, che sono i partner locali, che molto spesso sono delle Ong che lavorano nel contesto di un Paese da tanti anni. Uno dei progetti che sosteniamo, per esempio, riguarda un’impresa audiovisiva che ha sede in un quartiere di Nairobi, che inizialmente era partita come iniziativa legata ad Amref. Poi, noi sentiamo gli imprenditori una volta alla settimana, abbiamo dei business plan e dei programmi molto strutturati: uno dei requisiti fondamentali è che le realtà con cui collaboriamo abbiano un comprovato impatto sociale.

Cosa pensa del cosiddetto “Piano Marshall per l’Africa”, di cui si ricomincia a parlare?

Io credo che il punto fondamentale dello sviluppo non sia dispensare una serie di aiuti economici fini a se stessi. C’è bisogno che ci sia una ownership, un senso di appartenenza, delle cose che vengono fatte. Bisogna ascoltare e cambiare la narrativa sull’Africa: non possiamo continuare a pensare i suoi abitanti come dei poverini che aspettano il nostro aiuto. Si tratta di un continente ricchissimo, con l’Occidente deve ripensare il suo rapporto, anche in termini di decolonizzazione e di sfruttamento delle materie prime. Serve un ragionamento sulle tasse e il ritorno che il Nord globale dà per ciò che prende. Insomma, mi sembra un po’ antiquato pensare che un “Piano Marshall” possa risolvere i problemi: servono interventi più strutturali.

Cosa si potrebbe fare, quindi?

Iniziare anche a cambiare i termini. Provocatoriamente, non dobbiamo aiutarli né a casa nostra né a casa loro. Bisogna smetterla con la dialettica pietista: non andiamo a salvare nessuno, ma a sostenere e a far crescere ciò che già c’è di positivo, cambiando ottica: dal saccheggio agli investimenti costruttivi, in un clima paritario e di partnership orizzontale.


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