Gian Paolo Di Raimondo

Il manager volontario e l’impronta di Adriano Olivetti

di Luigi Alfonso

Un ex dirigente di alto profilo che ha lavorato con grandi aziende e ha avuto una particolare attenzione per i dipendenti, sull'esempio della filosofia dell'illustre imprenditore di Ivrea. «Ma devo la mia formazione culturale soprattutto a un professore comunista e a un prete molto aperto». L'amore per la sua famiglia e la certezza di non avere rimpianti. A 87 anni continua il suo impegno nel sociale

“È prerogativa della grandezza recare grande felicità con piccoli doni”. Questo aforisma di Friedrich Nietzsche calza a pennello per Gian Paolo Di Raimondo, 87 anni compiuti il 2 marzo, originario di Ancona ma romano d’adozione. Ha lavorato in qualità di manager per realtà del calibro di Olivetti, Philips e Siemens. Mezzo secolo di carriera, iniziata nel 1956, cioè durante il cosiddetto boom economico. Nel 1959 è passato alle dipendenze di un personaggio straordinario come Adriano Olivetti, che gli ha mostrato un modo differente di approcciarsi alla vita, a cominciare dall’attenzione per gli altri.

«Un grande onore lavorare con Olivetti. Purtroppo, per poco più di un anno, perché poi è deceduto piuttosto giovane. Ma il suo imprinting è durato altri vent’anni dopo la sua scomparsa: il management ha continuato a trattare i dipendenti come persone, prima ancora che come lavoratori. Si stava attenti ai bambini piccoli, assicurando loro gli asili nido, oppure all’istruzione e alla cultura. Olivetti voleva che, nella prima mezz’ora di lavoro, i suoi dipendenti si dedicassero alla lettura dei giornali perché dovevano essere ben informati. E ad alcune grandi aziende questa cosa non piaceva affatto».

Oltre alla sua naturale propensione caratteriale, quanto c’è di Adriano Olivetti nel suo modo di concepire il lavoro e il senso di appartenenza alla comunità? Dicono di lei che abbia sempre dosato cuore e cervello.

«All’inizio della mia formazione culturale e di lavoro, c’è stato Olivetti. Dunque era impossibile non ricevere una certa influenza dal suo modo di essere e di fare. Ma oltre al cuore e al cervello occorrono le braccia: per lavorare e anche per fare volontariato».

Ai tempi della Philips ha vissuto a lungo nel Nord Europa.

«Ho viaggiato molto, per lavoro. E conosciuto tante realtà. È il motivo per cui dico che in Italia siamo molto arretrati. Da noi è molto fiorente il volontariato, e società come la Caritas e la comunità Sant’Egidio fanno da stampella allo Stato. In Svezia, se un ragazzo ha una predisposizione per la musica, ci pensa lo Stato a pagare gli studi in Conservatorio. Da noi, se non ci pensano i genitori, un ragazzo resta ai margini della società. La sanità pubblica fa sì che prosperi il volontariato a causa di risorse economiche, burocrazia, organizzazione: i motivi sono tanti. La fortuna che ha il nostro Paese è certamente la Chiesa cattolica con la sua rete di parrocchie, che garantiscono l’assistenza e tutti i servizi sociali che lo Stato non riesce a garantire».

Ha ricevuto tanti riconoscimenti, tra cui il titolo di Cavaliere di Gran Croce (il massimo ed esclusivo grado dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana) dal presidente Sergio Mattarella, e quello di Maestro del lavoro che le ha conferito Azeglio Ciampi. Significa che ha seminato bene. C’è qualche incompiuta nella sua vita?

«Sono orgoglioso di aver ricevuto il titolo di Cavaliere di Gran Croce, non solo perché è un onore che spetta a poche persone ma anche e soprattutto perché premia l’azione nel mondo del volontariato, che è il mio servizio alla Repubblica italiana. Sono soddisfatto della mia vita: per la carriera che ho fatto e per la situazione economica che ne è derivata (la Olivetti pagava una volta e mezzo ciò che pagavano gli altri), per la famiglia che ho messo su e per le attività nel sociale. Non mi pento di niente perché non ho fatto nulla di male. E non ho rimpianti. A proposito della famiglia, è il collante della nostra società. Ogni dieci-quindici giorni io e mia moglie ci riuniamo con le nostre due figlie e le rispettive famiglie, ed è sempre una festa. E sia chiaro: non ho mai messo il naso nelle loro questioni, solo amore».

Lei ha sempre tenuto le distanze dal “business a tutti i costi”, ma anche dall’opportunismo che spesso accompagna le aziende che riforniscono la pubblica amministrazione. Sono valori che si porta appresso da quando è nato.

«I miei genitori erano dipendenti statali, nel periodo della guerra abbiamo patito la fame come tanti. Questo mi ha formato in un certo modo. E poi, ho avuto due maestri nel periodo in cui ho studiato a Camerino, città di grandi tradizioni culturali e universitarie in cui ho vissuto per vent'anni: il mio professore di lettere, Mario Ortolani, e un sacerdote che insegnava religione alle scuole superiori, don Antonio Bittarelli, con cui ho avuto rapporti personali per tutta la vita: uno mi ha insegnato la letteratura, l’altro il rapporto con Dio. Quello libero, non bigotto. Ortolani era comunista, Bittarelli un prete molto aperto. Amici intimi, pensate. Sembra di rivedere le storie di don Camillo e Peppone. È stata la cultura che li ha tenuti vicini».

Ci racconta le sue esperienze nel mondo del sociale e del volontariato, prima e dopo il pensionamento, avvenuto nel 2006?

«Ho sempre fatto attività di volontariato, sia da lavoratore dipendente e manager (Olivetti, Philips e Siemens), sia da presidente di Spa come Cisit e InfoGuard. Ma soprattutto la faccio ora, da pensionato: è diventata l’impegno predominante della mia giornata. L’aiutare chi ha bisogno, direttamente e indirettamente tramite le organizzazioni assistenziali cattoliche e laiche, dipende dai tre pilastri su cui si basa, soprattutto in Italia, questo intervento privato a sostegno del nostro Welfare State: il Cristianesimo, che ci insegna ad amare Dio e immediatamente dopo il prossimo, il quale va trattato con spirito caritatevole; poi c’è l’aspetto psicologico, cioè la sensazione di benessere psichico che segue un atto di assistenza a chi lo fa (quello che gli psicologi chiamano helper’s high); infine, quello pratico di aiutare lo Stato nel suo compito di dare benessere ai suoi cittadini, che da noi è insufficiente».

Ha fatto e ancora fa volontariato in diversi ambiti.

«Fin quando l’età me lo ha permesso, ho donato il sangue. Da pensionato sto coordinando il gruppo di donatori della mia parrocchia e organizzo le raccolte periodiche con l’Avis di Roma. Partecipo ad alcune iniziative delle tante organizzazioni umanitarie, come la Fipto (Fondazione italiana promozione trapianti d’organo) del gruppo Sito (Società italiana trapianti d’organo), per diffondere la cultura della donazione degli organi da vivo e da morto. Collaboro con la Caritas di Roma dall’anno in cui è diventato direttore Guerino Di Tora: partecipo alla raccolta di alimentari, prodotti per l’igiene personale e indumenti per rifornire la parrocchia e gli empori. Quando avevo qualche anno in meno, servivo nelle mense allestite dalla Caritas. Assisto in parrocchia mettendo mano al portafoglio, assieme ad un gruppo di volenterosi come me, per aiutare chi è bisognoso di un aiuto temporaneo per l’insorgere di un problema di salute o economico. In questa attività di volontariato la parrocchia è l’organo più vicino alla gente e i poveri si rivolgono specialmente ad essa quando si vergognano di chiedere aiuto agli organismi sociali pubblici e privati. Sono i cosiddetti nuovi poveri. Parallelamente all’attività pratica, mai smessa negli ultimi vent’anni, ho frequentato un corso biennale alla Pontificia Università Lateranense di Roma per ottenere un attestato di formazione per Operatori della Carità: la Chiesa cattolica preferisce che, chi opera nel campo del volontariato, lo faccia disponendo delle adeguate basi culturali del nostro credo».

Come le piacerebbe essere ricordato?

«Molto semplicemente, mi piacerebbe che venisse riconosciuto il mio approccio che ho sempre avuto con chi ha avuto meno di me. E poi quel livello culturale che mi ha permesso di andare avanti con dignità: non è un caso che tutte le dittature abbiano sempre cercato di tenere le masse ignoranti, dunque più controllabili».


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