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Legalità

RimanDati, il rapporto di Libera che dice quanto poco trasparenti siano ancora i Comuni del Sud

Un' edizione, quella 2024 di "RimanDati", il report di Libera sullo stato di trasparenza dei Comuni italiani in tema di beni confiscati alle mafie, che sorride ai risultati che rivelano la forza delle comunità monitorante, ma chiede di non abbassare la guardia sulla necessità di comprendere quali sono i nodi che impediscono la piena fruizione dei patrimoni immobili assegnati ai Comuni

Che di beni confiscati si parli per il grande valore che riacquistano quando vengono recuperati e restituiti alla comunità è ormai un assunto per tutti.

Poco, però, si dice dello stato della trasparenza nelle amministrazioni comunali. Un aspetto monitorato e reso pubblico per il terzo anno consecutivo da RimanDATI, report nazionale realizzato da Libera in collaborazione con il Gruppo Abele e il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino, e con il prezioso contributo di ISTAT.

Un team di lavoro giovane all’opera per monitorare il territorio

Un rapporto realizzato grazie a oltre 100 volontari che, dopo un’attenta fase preliminare fondata su confronti molti concreti, hanno costituito una squadra di 41 giovani, ritenuti adatti a rilevare, appunto, il livello di trasparenza degli enti locali.

Ecco che, su 1100 comuni destinatari di beni immobili confiscati monitorati, sono 724 quelli che pubblicano l’elenco sul loro sito Internet, con una percentuale che arriva al 65%. Un sensibile miglioramento rispetto al 2022, quando ci era fermati al 36,5% (392 comuni su 1073).

Fa sorridere anche la fotografia scattata agli enti sovracomunali: su 11 province e città metropolitane destinatarie di beni confiscati, solo 3 non pubblicano gli elenchi, mentre delle 6 regioni italiane alle quali sono stati destinati patrimoni confiscati alla mafia, a essere inadempienti sul livello di trasparenza sono il Lazio e la Calabria. Al di sotto della media, rispetto alla modalità di pubblicazione degli elenchi anche su scala regionale, risultano 9 regioni: Abruzzo, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Molise, Puglia, Sardegna, Toscana e Veneto.

Tra i Comuni capoluoghi di provincia, ben 67 comuni – 57 dei quali virtuosi sul fronte della trasparenza, pari al 60% dei capoluoghi di provincia italiani – risultano destinatari di beni confiscati, per un totale di 926 immobili.

Al Sud, che detiene il numero più consistente di beni confiscati alla criminalità mafiosa, ci sono anche capoluoghi meno trasparenti come Messina (64 beni confiscati), Barletta (47 beni confiscati) e Reggio Calabria (32 beni assegnati. Qui, in particolare, si utilizza un portale web dedicato, ma il Comune non pubblica alcun dato nella sezione Amministrazione Trasparente, motivo per cui è considerato inadempiente).

Come in ogni ricerca che si rispetti, non ci si può esimere dal sottolineare i più e meno virtuosi

Tanti i motivi che determinano i piazzamenti sopra o sotto il podio. Vuoi per impreparazione, vuoi per mancanza di personale o per altri oscuri motivi, sono purtroppo i Comuni del Sud a detenere il primato negativo in termini assoluti. Questo comprese le isole con ben 248 Comuni che non pubblicano elenchi, seguiti dal Nord Italia con 87 comuni e il Centro con 51 dei quali si sconoscono i dati.

A livello di singole regioni, tra le più “virtuose” – cioè quelle che raggiungono o superano il 70% dei Comuni che rendono noti quali sono i beni confiscati in loro possesso – ci sono: Liguria (87,5%), Emilia Romagna (84,4%), Puglia (79,8%) e Piemonte (78,2%). Rimandati con percentuale al di sotto del 50% Basilicata, Calabria, Lazio e Molise. Nello specifico delle singole regioni, val la pena rilevare come anche le 4 regioni ferme a 0 comuni adempienti nel 2022 (Basilicata, Molise, Trentino e Valle d’Aosta), nel 2023 facciano registrare un balzo in avanti.

Più in generale, i dati migliorano in tutte le regioni, con punte significative, considerato il peso regionale, per Campania, Piemonte e Liguria. Dopo la discesa del 2022, risale lentamente la Calabria, dove si passa dal 18,8% dello scorso anno al 49,8%. Stessa cosa per la Sicilia, dove, a fronte del 29,9% del 2022, nel 2023 si arriva al 56,5%.

«È bene in ogni caso ricordare », commenta Libera , «che tali considerazioni vanno lette con la massima cautela, dato il significativo peso relativo degli immobili confiscati che gli enti locali in queste regioni sono chiamate a gestire».

Tre le Province assegnatarie di Beni confiscati che non pubblicano i dovuti elenchi ci sono quelle di Crotone, Matera e Messina, mentre la Calabria e il Lazio sono tra le regioni monitorate che risultano inadempiente nella pubblicazione e trasparenza sui beni confiscati a loro destinati

«La base di partenza del lavoro di monitoraggio», spiega ancora Libera, «coincide con il totale dei comuni italiani al cui patrimonio indisponibile sono stati “destinati” i beni immobili confiscati alle mafie per finalità istituzionali o per scopi sociali. Se guardiamo al profondo Sud, in Sicilia sono 207 i comuni destinatari di beni immobili confiscati, 90 dei quali, pari al 43 cento del totale, non pubblicano l’elenco sul loro sito Internet, così come invece previsto dalla legge, mentre sono 117 quelli che pubblicano le informazioni sui patrimoni confiscati loro destinati. Il primato negativo spetta ai comuni della provincia di Ragusa, dove su 6 destinatari di beni confiscati, ben 4 sono inadempienti; non va meglio per quelli della provincia di Enna dove, 5 su 9, non pubblicano alcun elenco. Nella provincia di Messina sono 18 quelli dei quali non si sa nulla sui 34 complessivi, mentre nella provincia di Palermo, 15 su 50 Comuni rivelano la loro in adempienza».

Interessante, se non addirittura istruttiva, la parte finale del report dove, se qualcuno avesse ancora dei dubbi, potrebbe trovare risposta grazie al “Glossario sui beni confiscati e sulla trasparenza” che, partendo da A di “Accesso civico ai dati”, ci conduce sino alla Zeta di “Zero dati mancanti sui beni confiscati” che chiude il rapporto dando anche alcune indicazioni sugli obiettivi da perseguire.

«Non ci vogliamo chiedere quali dati abbiamo circa i beni confiscati », si legge a conclusione del report, «ma quali siano quelli che mancano, istituzionali o civici, e fare di tutto per ottenerli nelle forme più efficaci e nel minor tempo possibile: domandarli alla pubblica amministrazione, produrli stimolando comunità monitoranti, farli immettere direttamente dai soggetti gestori. Entro il 2024, vogliamo che non ne sfugga neppure uno: questa è la nostra meta. Non desideriamo essere l’ennesima “buona pratica”, ma il motore di un vero e proprio cambio di paradigma. Intendiamo generare cambiamento nel modo d’intendere i beni confiscati in questo Paese: una risorsa da preservare e incoraggiare (non certo da vendere o svendere), mettendo al centro la loro gestione libera da logiche opache».

vita a sud

Meccanismi da svelare per fare in modo che attraverso uno strumento come RimanDATI si possano stimolare modelli che segnino cambi di passo

«I rapporti con il mondo degli enti territoriali di prossimità sono un ingranaggio fondamentale dell’intera filiera della confisca e del riutilizzo»,  commenta in conclusione  Tatiana Giannone, referente nazionale del settore Beni Confiscati di Libera, «per far crescere in modo esponenziale le storie di rigenerazione intorno ai beni confiscati, preservando lo strumento della confisca nel suo senso risarcitorio più profondo. Stiamo attraversano un periodo in cui dal governo arrivano segnali contrastanti sul sostegno agli enti locali: basti pensare a tutte le misure definanziate all’interno del PNRR, fino ad arrivare al disegno di legge sull’autonomia differenziata, che bloccherebbe lo sviluppo di intere aree del nostro Paese. Inoltre, sempre di più prende piede un approccio privatistico al tema del riutilizzo dei beni confiscati: nel dibattito pubblico si parla del tema della vendita e della rimodulazione delle misure di prevenzione, si banalizzano le criticità che affliggono la materia e si rafforza la brutta abitudine a piegare i numeri ai propri fini. Messaggi che convergono su una lettura superficiale e ingiusta, a partire dalla quale si getta un discredito generalizzato su uno strumento che, invece, ha consentito una vera e propria rivoluzione. Lo ribadiamo con forza e convinzione: combattere le mafie e la corruzione vuol dire attivare percorsi di giustizia sociale e farsi gambe per i diritti dei cittadini e delle comunità».


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