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La denuncia dei pescatori siciliani: “Così i libici si sono presi il Mediterraneo”

di Alessandro Puglia

La pretesa di vari governi libici che sin dagli anni ’70 chiedevano 12+62 miglia di mare, compreso il Golfo di Sirte, è di fatto diventata una realtà su cui senz’altro incide la definizione, autoproclamata e accertata dall’Organizzazione Marittima internazionale, di una zona Sar Libica istituita a giugno 2018. “Adesso la Marina Militare anzichè difenderci ci chiede di allontanarci, non possiamo più lavorare e abbiamo paura”, ecco cosa sta accadendo ai nostri pescatori nel Mediterraneo privo di testimoni.

Un mare dove nessuno deve vedere, scomodo, in cui ciò che è lecito viene stabilito di volta in volta, senza testimoni. Un mare dove se cali la tua rete da pesca devi stare attento perché puoi essere sequestrato, minacciato con le armi e magari rinchiuso in uno dei tanti lager dove ogni giorno centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini vengono torturati. No, questo non è un mare lontano. É il nostro mare, il Mediterraneo dove capitan Raimondo Sudano e capitan Alberto o Roberto Figuccia, comandanti di pesca d’altura, italiani, Raimondo è di Siracusa, Roberto di Mazara del Vallo, fanno oggi da portavoce all’intera marineria siciliana perché vogliono poter tornare a lavorare in quello che poi da sempre è stato un po’ il loro mare, senza alcuna paura.

«Gridiamo a nome di tutti i pescatori, vogliamo che lo Stato Italiano ci difenda, se non possiamo più pescare in acque internazionali e in prossimità delle acque libiche dove c’è la linfa vitale del nostro lavoro morirà tutto il comparto pesca che è già in ginocchio. Nessuno ha detto a questi signori questo mare è vostro, sono animali e noi possiamo dirlo perché ci hanno sequestrato più volte, minacciato, obbligato a farci sorridere per fare vedere che era tutto apposto. Viviamo nella paura e chiediamo che lo Stato Italiano anziché impiegare tutte le risorse per tutelare i suoi affari sui migranti metta a disposizione almeno due navi per la vigilanza pesca», chiedono a gran voce capitan Raimondo e capitan Roberto.

Quella che sembrerebbe una storia antica si rinnova ogni giorno. E se prima non andava bene a nessuno stato europeo, Italia in primis, oggi va bene a tutti pur di difendere i cosiddetti confini dall’immaginaria invasione dei migranti.

Ma cos’è accaduto da quando uno stato diviso in più fazioni e in guerra come la Libia ha istituito la sua zona Sar che per i non addetti ai lavori significa letteralmente “ricerca e soccorso in mare”? E cosa c’entra il Golfo di Sirte?

Beatrice Gornati, dottore di ricerca in diritto internazionale all’Università degli studi di Milano esperta in traffico di migranti nel Mediterraneo spiega: «Bisogna tenere presente che nel 1973 la Libia dichiarò che il Golfo di Sirte fosse parte delle sue acque interne: il Golfo fu annesso attraverso una linea di circa 300 miglia, lungo il 32°30’ parallelo di latitudine nord. Tuttavia, tale rivendicazione fu respinta da un gran numero di Stati, inclusi i principali membri dell’Unione europea (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito). A seguito di questo episodio, nel febbraio 2005, la Libia stabilì inoltre, tramite una decisione del Libyan General People’s Committee, una zona di protezione della pesca, nel rispetto della General People’s Committee Decision No. 37 del 2005. Anche in questo caso, la delimitazione stabilita dalla Libia incontrò le proteste di diversi Stati e della Presidenza dell’Unione europea: considerando infatti che la Libia aveva rivendicato il Golfo di Sirte quale parte delle sue acque interne, le 62 miglia di zona di pesca da essa reclamate sarebbero state contate a partire dalle 12 miglia dalla linea di chiusura del golfo. Peraltro, nel 2009, la Libia dichiarò una ZEE (zona economica esclusiva) “adjacent to and extending as far beyond its territorial waters as permitted under international law” ,il cui limite esterno, ad oggi, non è ancora stato tracciato».

Dei profili di illegittimità dell’allargamento in mare dello pseudo governo di Tripoli ne scrive anche l’analista Fabio Caffio nell’articolo pubblicato il 15 novembre 2018 su Analisi Difesa “Quale protezione per la pesca italiana in acque libiche”?

Il 28 giugno 2018 l’IMO (Organizzazione Marittima internazionale) ufficializza quello che in passato appariva come un’utopia e registra su comunicazione delle autorità libiche la zona Sar (Search and Rescue) libica con un proprio centro di coordinamento di soccorsi (JRCC). Registrandosi sul sito è possibile consultare alcuni dati, visionare la mappa e conoscere altitudine e longitudine dell’area in questione. Muniti di carta nautica, abbiamo calcolato queste distanze. Dalla costa di Tripoli alla linea rossa di confine le miglia sono circa 116,25. É chiaro quindi perché i pescatori siciliani hanno tutto il diritto di dire oggi che da un anno a questa parte i libici «si sono presi mezzo Mar Mediterraneo». Raimondo aggiunge: «E questo avviene anche grazie all’Italia che dà alla guardia costiera libica i mezzi di sostentamento per fare la Guerra a noi italiani che andiamo a lavorare onestamente. I libici si sono ora fatti anche furbi, oltre che con le motovedette vengono a fare gli abbordaggi in mare con le barche da pesca e subito dopo arrivano i loro gommoni e non hai neanche il tempo di chiamare le autorità italiane che vieni sequestrato con tutto il pescato e trattato come un terrorista».

Ritornando alle famose 12+62 miglia che prima non andavano bene a nessuno e che ora sono inglobate all’interno della vasta area Sar (che non coincide né con la zona adibita alla pesca né con la zona economica esclusiva) sono gli stessi pescatori a spiegarci cosa è mutato nell’ultimo periodo: «Prima la nostra Marina Militare ci sosteneva, adesso non appena ci troviamo a 50, 60 miglia dalla costa libica ci dice di andare via. Non capiamo perché lo Stato non ci difende più e invece ci intima di allontanarci: questo è avvenuto anche pochi giorni fa»spiegano i due pescatori che come tanti colleghi si sentono oggi cacciati da quello che è stato sempre un po’ il loro mare: «questa storia delle 74 miglia va avanti dai tempi di Gheddafi, ma prima, rispettando sempre le 25 miglia dalla costa, lì ci lavoravamo tranquillamente. É inutile che la Marina ci ripete di allontanarci dalle 74 miglia perché dove siamo confinati adesso non c’è fondo per poter lavorare», aggiunge Figuccia. E rimane in sospeso la questione del Golfo di Sirte considerato acqua interna: «Con il Golfo di Sirte i libici hanno un’area di 300 metri quadrati, non appena lasciamo i confini maltesi noi siamo praticamente dentro le acque libiche, ma non c’è scritto da nessuna parte che loro hanno 74 miglia di acque territoriali», aggiunge Sodano.

La zona Sar libica è quindi una pretesa o una finzione? O un semplice modo per eliminare qualsiasi testimone e impedire di conseguenza ai pescatori di fare il proprio lavoro? Tra sequestri e soccorsi in mare, capitan Raimondo e capitan Roberto, sperano oggi che il Mediterraneo possa tornare un mare di pesca.

Roberto Figuccia per ben due volte ha vissuto l’esperienza del sequestro. Il primo nel 2015: «Eravamo in acque internazionali quando siamo stati abbordati da un grosso rimorchiatore di altura che era più armato di una nave da Guerra, mi intimava di recuperare l’attrezzatura e proseguire verso Misurata, in quel sequestro un mio uomo è stato ferito gravemente a una gamba, ma con l’aiuto del buon Dio siamo riusciti a portare a casa la pelle. L’ultimo sequestro è stato ad ottobre 2018, ad affiancarci è stata una motovedetta libica che per me era una nave dello Stato Italiano regalata alla Libia. Siamo stati quattro giorni sotto sequestro, hanno preso il nostro pescato di un mese e rischiavamo di finire in un carcere libico, bunker privi di igiene e in assenza di condizioni umane. Poi abbiamo dovuto sorridere per far vedere che andava tutto bene. Sono stati i quattro giorni più brutti della mia vita», aggiunge Roberto Figuccia che oltre alle terribili esperienze dei sequestri ricorda il soccorso nel 2002 a 162 migranti in un barcone in difficoltà: «Erano in pericolo di vita, in piena notte li abbiamo recuperati, si lanciavano sulla nostra imbarcazione e alcuni cadevano in mare. Quando li abbiamo tratti in salvo gli abbiamo chiesto quanti erano e grazie a Dio c’erano tutti. Li abbiamo portati a Lampedusa e siamo tornati a fare il nostro lavoro. Ogni tanto penso che si può fare in maniera diversa per salvare tante vite umane».

Il sequestro dell’Alba Chiara di Raimondo Sudano è avvenuto invece nel 2014, a 50 miglia da Alessandria d’Egitto: «Ci hanno maltrattato, per tutto il tempo del sequestro siamo stati con le armi puntate addosso, anche quando andavamo in bagno, nessuno dei nostri politici ci ha dato una parola di conforto».

La paura di tornare in mare è tanta e si sovrappone a quel senso di abbandono da parte dello Stato che non tutela i suoi pescatori. Scrive ancora l’esperto Fabio Caffio che, pur ricordando l’impegno passato della nostra Marina nello Stretto di Sicilia e nell’Adriatico dall’aggressività jugoslava, scrive: «Diverso invece l’impegno della Marina nella zona di acque internazionali ove ricade la ZPP libica: non risulta infatti che la Forza Armata abbia ricevuto alcuna direttiva di proteggere da vicino ed in modo continuativo l’attività di pesca dei connazionali contrastando la pretesa libica».

Forse oggi la pretesa più grande è pensare a quel Mediterraneo come un mare di pace. E questa volta a ricordarcelo non sono solo i migranti o le Ong, ma i nostri pescatori.


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