Stili di vita

Il mio incidente? Mi ha indicato strade nuove per la vita

di Luigi Alfonso

Daniele Bonacini, ingegnere meccanico milanese, a 22 anni ha avuto un grave incidente stradale che gli ha fatto perdere una gamba ma non la voglia di vivere e progettare. Ha partecipato alle Paralimpiadi e alle maggiori competizioni internazionali di atletica leggera, e da 16 anni mette la sua esperienza a disposizione della innovazione tecnologica. A giugno invierà 300 protesi ortopediche alle persone mutilate dal conflitto in Ucraina

C’è un punto che accomuna tutti gli atleti paralimpici, a prescindere dai differenti vissuti: una forza d’animo decisamente superiore alla media. Daniele Bonacini è tra questi. L’ex atleta paralimpico milanese, oggi 51enne, ha smesso di praticare l’attività sportiva ormai da parecchi anni, per dedicarsi alla famiglia e alla sua azienda, la Roadrunnerfoot Engineering Srl, nata in seguito al grave incidente in cui è incorso quand’era giovanissimo. In questi giorni, il suo nome è tornato alla ribalta per un’iniziativa umanitaria che sta portando avanti attraverso l’associazione da lui fondata, la Roadrunnerheart: l’invio di 200 protesi ortopediche per i mutilati del conflitto in Ucraina.

Ingegner Bonacini, riavvolgiamo il filo della memoria. Partiamo dalla notte tra il 22 e il 23 dicembre 1993, che non le ha permesso di trascorrere un Natale sereno.

«Sono passati trent’anni, ormai. Avevo 22 anni e frequentavo il terzo anno di ingegneria meccanica. Era l’una di notte. In una curva, si è bloccato lo sterzo della mia auto e sono andato a finire dritto sul guardrail, che si è infilato nell’abitacolo e mi ha reciso di netto la gamba destra, per mia fortuna sotto il ginocchio. Tempo dopo ho scoperto che la casa automobilistica ha richiamato diecimila vetture perché si trattava di un difetto di fabbrica piuttosto diffuso. Nel frattempo, nel punto dell’incidente, hanno cambiato il raccordo e addolcito la curva».

Alla fine dell’aprile 1994, dopo tre mesi di permanenza all’ospedale Niguarda, è stato dimesso.

«Mi sono rivolto al Centro protesi Inail, a Budrio. Volevo essere autonomo e indipendente. In poco tempo, giravo per le strade di Milano in bicicletta, ancora non riuscivo a camminare bene. Ho avuto un rallentamento negli studi universitari ma poi mi sono rimesso al passo. Imparare a camminare è stato complesso, anche perché allora non c’era la tecnologia che c’è oggi: c’erano già i piedi in fibra di carbonio, ma non le cuffie in materiale morbido; quindi, camminando ci si procurava dolorose abrasioni sul moncone. Adesso è molto più semplice reimparare a camminare: costa sempre fatica ma è più agevole rispetto agli anni ’90. A suo tempo pagai circa due milioni di lire, una cifra enorme. Oggi il Servizio sanitario nazionale riconosce alcune centinaia di euro per acquistare il piede di legno, con il quale è però impossibile praticare sport. Servirebbe di più e, come al solito, stanno meglio soltanto le persone benestanti, le quali possono permettersi protesi di ultima generazione, che arrivano a costare anche 10mila-50mila euro. Purtroppo, il nomenclatore dei dispositivi medici forniti gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale, che poi va a ricadere sulle Regioni, non viene quasi mai aggiornato: siamo fermi a prima del Duemila. Non è stata ancora recepita l’innovazione dei piedi in fibra di carbonio, realizzati grazie alle tecnologie più avanzate. Continuano a parlare di Lea ma siamo molto indietro: la tecnologia fa passi da giganti, l’elettronica è entrata da tempo nel campo della protesica, esistono persino le ginocchia elettroniche, eppure in Italia lo sanno soltanto gli addetti ai lavori».

Che cosa ha fatto dopo la laurea?

«Ho maturato esperienza per alcuni anni in un’azienda italiana del settore auto: se non avessi avuto quell’incidente, credo che lo avrei fatto per tutta la vita. Gli eventi mi hanno suggerito di fare qualcosa per le persone che si trovano nelle mie condizioni. E sono felice di averlo fatto, grazie anche a un dottorato di ricerca al Politecnico di Milano sui metodi di sviluppo prodotto, proprio sulle protesi. Ora stiamo industrializzando una carrozzina in fibra di carbonio che pesa 4,5 kg: al momento, non c’è una carrozzina sul mercato mondiale che pesi meno di 7 kg. Abbiamo sfornato una serie di nuovi prodotti che ci ha consentito di arrivare a un catalogo completo di 200 pagine. Parallelamente, sin dal 2007 sviluppiamo progetti umanitari e aiutiamo i Paesi in via di sviluppo oppure alle prese con emergenze sanitarie o catastrofi, come il terremoto di Haiti. Siamo piccoli, dunque più agili rispetto ad aziende che hanno molti stipendi da pagare ed elevati costi d’affitto degli stabili. Noi gestiamo i progetti umanitari a livello di volontariato, nessuno della nostra associazione percepisce uno stipendio né tantomeno rimborsi spese, le donazioni che riceviamo vanno totalmente a coprire i costi di produzione».

Lei è sempre stato uno sportivo, sin da bambino.

«Sì, giocavo a calcio, tennis e pallavolo. Lo spirito è rimasto quello. Ma in certe condizioni fisiche, era difficile immaginare di riprendere la stessa vita. Un giorno del 1996, mentre guardavo le Paralimpiadi di Atlanta, vidi correre l’atleta focomelico Tony Volpentest: non aveva gambe né braccia, eppure correva i cento metri in 11”38. Fu un’autentica folgorazione: capii che la tecnologia poteva consentirmi di correre. Così iniziai ad allenarmi. Andai subito al parco di Trenno e, sotto un nubifragio, feci jogging tre anni dopo l’incidente. Fu una sensazione incredibile di libertà e pace che non avevo mai provato prima. Nel giugno 1997 andai alla Polisportiva Milanese e alla fine dello stesso anno l’ingegner Verni e il tecnico ortopedico Ezio Sermasi del Centro protesi Inail realizzarono la prima protesi di marca italiana adatta alla corsa. Nell’aprile 2008 iniziò la mia carriera agonistica, facevo i 100 e 200 metri più il salto in lungo, conquistai svariati titoli italiani e onorevoli piazzamenti ai campionati europei (4° nei 200 metri e nel salto in lungo nel 2003, ad Assen), oltre a risultati di buon livello ai Mondiali e alle Paralimpiadi di Atene nel 2004 (6° nel salto in lungo). Ovviamente, era difficile fare i tempi degli atleti professionisti americani, nonostante mi allenassi anche tre ore al giorno».

Esperienze che lasciano il segno per sempre.

«Le Paralimpiadi di Atene mi hanno cambiato, come atleta e come uomo. Lì ho visto per la prima volta il differente impatto della tecnologia sulle persone: gli atleti tedeschi portavano protesi che pesavano un chilo e mezzo, mentre gli atleti bulgari o del Sud-est asiatico avevano protesi di 7-8 kg. La lotta era impari. Lì è scattato qualcosa dentro di me, ho fortemente voluto creare un’azienda che facesse ausili tecnologicamente avanzati e ad alte performance, ma accessibili».

Tante soddisfazioni ma pure tanta fatica.

«Mi sono ritirato quando è nato il nostro secondo figlio. Ma mi sono ricordato di Tony Volpentest, che era anche un grande testimonial in difesa dei diritti delle persone con disabilità. Il 13 marzo 2007 ho fondato la Roadrunnerfoot Engineering: all’inizio abbiamo avuto un po’ di difficoltà economiche, come buona parte delle start up, ma poi abbiamo sfruttato al meglio i fondi Por/Fesr della Regione Lombardia, e siamo riusciti a decollare. Oggi siamo l’unica azienda italiana del settore, ho sette dipendenti e tra poco ne assumerò altri tre. Puntiamo a prodotti di qualità elevata ma a costi contenuti, per rendere raggiungibile per tutti la tecnologia: tutti i disabili devono poter correre e fare sport. Contestualmente, attraverso l’associazione senza fini di lucro “Roadrunnerheart”, sviluppiamo progetti nel sociale e mostriamo ai sostenitori i risultati ottenuti in tempo reale, sui social. Abbiamo condotto varie iniziative in ogni parte del mondo, dal Sudamerica all’Africa al Sud-est asiatico, dall’Afghanistan al Vietnam e alla Cambogia. La raccolta fondi ci consente di finanziare i progetti, compreso quello che stiamo lanciando in Ucraina a favore di 200-300 persone che hanno perso un arto durante il conflitto con la Russia».

Come gestirete la distribuzione di questi dispositivi?

Lo faranno per noi tre soggetti qualificati che abbiamo contattato tempo fa: Protez Foundation, il Centro ortopedico Superhumans e l’ospedale di Leopoli grazie al supporto della dottoressa Matilde Leonardi del Besta di Milano».

C’è da essere fieri delle due creature che ha fondato.

«Certamente lo sono, ma non dimentico gli ostacoli che in Italia un’azienda deve affrontare e superare. E mi resta un grande rammarico, una profonda amarezza. Nel 2012, il presidente Napolitano mi ha conferito l’onorificenza di commendatore, e mi ha fatto piacere a livello personale. Eppure, in tutti questi anni, nonostante ci abbiano presentati a Bruxelles come un caso di eccellenza, nessuno sembra accorgersi di ciò che facciamo. Siamo l’unica azienda in Italia e una delle sei al mondo che fanno questo lavoro, con queste competenze high tech. Imprese come la mia andrebbero portate su un vassoio, come se fossero diamanti. E le assicuro che non lo dico perché l’azienda è la mia. Sto aspettando le mosse del Governo: hanno fornito armi, cibo e medicinali. Certo, bisogna pensare alla ricostruzione, ma non ci sono soltanto le infrastrutture come ponti e strade. Occorre anche la ricostruzione dell’uomo, nel momento in cui perde una gamba o un braccio. Si parla di un numero di amputati stimato tra i 20mila e i 50mila, è necessario un intervento con questo tipo di protesi. Siamo l’unica azienda in Italia che fa questo, mi aspetterei di essere contattato. Al di là dell’offrire la mia disponibilità, non posso fare. Non sempre le istituzioni si accorgono dei valori e delle eccellenze italiane, e questo è un grosso peccato. In passato abbiamo fornito protesi alla Libia con una gara d’appalto della Farnesina; quindi, il ministero degli Esteri sa perfettamente chi siamo. Abbiamo realizzato 1.000 protesi per fini umanitari ad Haiti, in tutto il mondo ci sono pochissime aziende che producono questi dispositivi (una inglese, una francese, una tedesca e altre tre americane). In Italia abbiamo centinaia di officine ortopediche, ma si limitano a fare il calco di gesso, l’impronta. Noi abbiamo messo su un’azienda con le competenze giuste, ma evidentemente questo non basta».

Ha superato il mezzo secolo di vita. È troppo presto per tracciare un primo bilancio?

«Sicuramente l’incidente mi ha dato una vita più intensa e più ricca. Ho fatto delle cose che non avrei fatto senza l’incidente: non solo le competizioni di atletica leggera ma anche le protesi per i bambini di Haiti, che hanno permesso a tante persone senza una gamba di camminare. Sì, credo proprio che avrei avuto una vita più anonima. Capisco, dunque, i tanti miei ex colleghi atleti paralimpici che, un po’ a livello di provocazione, dicono di essere stati fortunati».


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