Mondo

Kivu, Afghanistan, Sudan così si vive on target

Paure e precauzioni di tre operatori espatriati italiani

di Redazione

Niente giubbotti antiproiettile, «indossarli sarebbe più pericoloso», né guardie armate: «L’unica via è la fiducia della popolazione» Edoardo Tagliani
I l faro acceso dai media? A volte salva la vita. E può sbloccare situazioni in stallo da anni. A dirlo dal Kivu è Edoardo Tagliani, responsabile-Paese dell’ong Avsi. Nel novembre dello scorso anno, nell’Est del Congo è ripreso il conflitto fra gruppi armati che dal 96 ad oggi ha causato oltre quattro milioni di vittime. E in tutto il 2008 sono stati oltre cento gli attacchi di cui sono stati vittime gli operatori umanitari. In uno di questi, il 15 dicembre, ha perso la vita un collaboratore congolese di Avsi, Boduin Ntamenya. L’Est della Repubblica democratica del Congo – le regioni del Kivu e dell’Ituri, ricche di materie e altrettanto zeppe di eserciti e gruppi armati – segue di poco l’Afghanistan e la Somalia nella lista delle aree più pericolose del pianeta per chi porta aiuti alla popolazione.
«È semplice, gli attacchi agli umanitari avvengono perché c’è in corso una guerra, sono proporzionali al tasso di guerriglia e alle vittime civili», afferma Tagliani, «la differenza rispetto all’Afghanistan è che questa crisi è stata per anni quasi totalmente ignorata». Qualcosa però è cambiato nelle ultime ore. Il gruppo principale della guerriglia, quello guidato dal generale Laurent Nkunda, avrebbe firmato un accordo con il governo. «L’esposizione mediatica degli ultimi due mesi è stata utile», afferma il cooperante. La pressione della comunità internazionale è molto aumentata sui gruppi ribelli. «Fa specie perché qui per comunità internazionale si intendono le stesse dieci-quindici persone che bazzicano il Kivu da dieci anni e che, fino ad ora, non hanno fatto nulla di considerevole. Ma nel momento in cui sono stati illuminati dai riflettori dei media hanno dato una scossa a situazioni che erano in stallo da tempo». Le misure di sicurezza adottate dai sei cooperanti di Avsi presenti in Kivu non sono cambiate dopo l’uccisione di Boduin. «Qualcuno ci ha proposto di indossare giubbotti anti proiettile, ma abbiamo rifiutato», dice Tagliani, «sarebbe un pessimo messaggio nei confronti sia della popolazione che dei gruppi armati, significherebbe che non abbiamo la minima fiducia e ci esporrebbe perciò a rischi maggiori».

Martin Von Braunmuhl
L a sicurezza degli operatori umanitari in Afghanistan è diventata un lavoro. «Qui è tutto molto strutturato», racconta da Herat il cooperante del Cesvi, Martin Von Braunmuhl, «ci sono le aree in cui puoi andare e quelle dove non puoi, e ci sono agenzie che si occupano solo di sicurezza». Come Anso (Ngo Security Office), organizzazione cui fanno riferimento le ong che operano nel Paese per sapere giorno per giorno quali sono le strade e le zone sicure. «Ci forniscono aggiornamenti continui e ci informano sulle misure da adottare per correre meno rischi». Ad Herat il Cesvi fa base per coordinare i progetti di emergenza e di sviluppo nel Paese, dall’assistenza agli sfollati alla reintegrazione di donne e giovani nel mondo del lavoro, ai corsi di formazione professionale. Von Braunmuhl, 27 anni, però è un security officer e si occupa a tempo pieno di logistica e di sicurezza. «Non è facile dire se l’Afghanistan di oggi sia un Paese pericoloso perché dipende molto dalle zone in cui si opera. Nelle città si è abbastanza sicuri, i rischi invece crescono al di fuori dei centri urbani. Ci sono organizzazioni come la Croce Rossa o le agenzie dell’Onu che hanno status speciali e possono permettersi di uscire. Ci sono altre organizzazioni, come le ong, che invece non lo possono e non lo devono fare». «Qui in Afghanistan ogni tanto ci sono dei seminari ad hoc per cooperanti organizzati da agenzie private, che si fanno pagare per questi servizi».
E con i militari italiani? Nessun coordinamento per quanto riguarda la sicurezza? «Il rapporto è difficile e delicato. Ci sono 4mila nostri soldati e la loro base è proprio ad Herat. È vitale differenziarci da loro che sono percepiti come una forza occupante, altrimenti diventeremmo subito dei target. Noi delle ong, per esempio, non abbiamo guardie armate davanti alle nostre sedi, sarebbe controproducente. È invece di vitale importanza istaurare un rapporto di fiducia con la gente e con i nostri collaboratori locali».

Daniela D’Urso
« L ‘ Unamid (la missione congiunta dell’Onu e dell’Unione africana in Darfur, ndr ) non è un riferimento per quanto riguarda la nostra sicurezza». Daniela D’Urso, 32 anni, si trova a Karthoum, la capitale del Sudan, quando

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