Mondo
la corea e le ong,bprove di disgelo
Dieci anni fa l'abbandono di molte organizzazioniboccidentali per la censura di regime. Ma oggi la dittatura blancia segnali. Anche verso gli Usa
di Redazione

G li abitanti della cittadina di Samjiyon guardano con preoccupazione la neve che imbianca la cima del monte Paektu. L’inverno è già arrivato, in questa provincia settentrionale della Corea del Nord, e fra pochi giorni la temperatura sprofonderà a venti gradi sotto lo zero, lasciando milioni di persone a combattere, oltre al gelo, la penuria di cibo. «Sono due milioni i nordcoreani che rischiano di piombare nell’incubo della carestia», mi dice Torben Due , direttore dell’ufficio del Programma alimentare mondiale di Pyongyang. Quest’anno però alla crisi alimentare si è aggiunta quella politica, dovuta alla malattia del grande leader Kim Jong Il ( nella foto ), che ha creato un pericoloso stand-by nel governo di Pyongyang.
«In attesa di verificare lo stato di salute di Kim Jong Il, le attività diplomatiche sono sospese, interrompendo l’apertura del nuovo corso politico voluto dal leader nel 2000», spiega Haksoon Paik , ricercatore del Sejong Institute e autore del libro North Korea in Distress . I collegamenti con la Cina e le linee telefoniche con il Sud sono interrotti e il personale straniero delle 12 ong in Nord Corea è stato avvisato di prepararsi a un temporaneo allontanamento. «Pyongyang sta aspettando la nuova politica di Obama, e le ong giocheranno un ruolo preponderante nella mediazione tra i due governi», confida Ells Culver , cofondatore di Mercy Corps, il principale organismo non governativo statunitense in Nord Corea. «Entrambi i Paesi sanno che hanno bisogno di noi per stemperare la tensione e raggiungere la stabilità necessaria per il dialogo».
È chiaro, quindi, che l’importanza delle ong va oltre il mero aiuto economico e umanitario. La conferma viene dal fatto che, proprio mentre le relazioni tra Casa Bianca e Pyongyang sono pessime, le associazioni statunitensi sul territorio nordcoreano sono le più numerose. Ci sono, però, anche ong che, con un gesto clamoroso, si sono ritirate dalla nazione. È il caso di Action contre la faim, Oxfam International, Médicins du Monde e Médicins sans Frontières, che nel 1998 se ne sono andate in blocco perché la politica umanitaria imposta dal governo non garantiva «i principi di imparzialità ed efficienza». Oggi molte delle condizioni-capestro imposte da Pyongyang sono decadute: non c’è più, ad esempio, l’obbligo di notificare in anticipo le visite ai siti in cui si opera e i cooperanti stranieri possono parlare coreano (prima era richiesta la non conoscenza della lingua).
Rimangono comunque pesanti restrizioni, come l’affidamento al Sistema di distribuzione pubblica nella gestione degli aiuti e il divieto di operare in zone ancora off-limits agli stranieri e dove Amnesty International e Human Rights Watch affermano siano presenti i campi di rieducazione che accoglierebbero tra i 150-200mila tra dissidenti, prigionieri politici e criminali comuni. «Il successo delle ong che lavorano in Corea del Nord sta nel fatto che accettano di operare in aree non strategiche, mantenendo un basso profilo», spiega l’americano Eugene Yim , medico e membro della ong Nodutol. Se questa è la strategia vincente per non essere cacciati, sono però in molti a non accettare il compromesso. «In uno Stato dove non esiste un associazionismo indipendente dal governo, tutto deve essere ordinato politicamente», conferma Gordon Flake , della Fondazione Mike and Mareen Mansfield. «Questo, oltre a limitare l’accesso alla popolazione, comporta uno stravolgimento dell’idea di aiuto che non tutti sono disposti ad accettare». Ma nel frattempo, quanti nordcoreani dovranno ancora morire prima che ong, amministrazioni e ideologie comincino a dialogare?
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