Di fotografia sociale si parlerà dal 19 al 22 maggio, a Lodi, in occasione del Festival della fotografia etica. Uno dei protagonisti dell’evento sarà, con un suo workshop sul tema, Stefano De Luigi (nella foto sotto), uno dei più noti reportagisti italiani, premiato al World Press Photo per un lavoro fotografico sulla cecità.
Cosa vuol dire fotografia etica? Il mestiere del fotografo ha un’etica?
Se esista un’etica codificata della fotografia non lo so, è un problema che in astratto non mi sono mai posto. Perché già nella pratica chi fa il mio lavoro è portato in qualche modo a entrare in empatia con i suoi soggetti, a rispettarli, anche quando siamo costretti in qualche modo a violarne l’intimità con una fotografia che trasforma un momento privato in un fatto pubblico. Poi io ho una regola: non piegare mai nessuna situazione a esigenze estetiche. La fotografia non deve mentire.
Qual è l’elemento in più che la fotografia ha come strumento narrativo?
La fotografia è sintesi estrema. L’attimo, lo scatto quello è. Ma deve dire tutto. La tv, ma anche la scrittura, a un fatto possono aggiungere fronzoli, annacquarlo, snaturarlo. La fotografia no. Per questo, in un momento storico in cui prevale l’interpretazione dei fatti, quella dei fotografi-fotogiornalisti è una specie protetta, in via d’estinzione.
Un esempio di fotografia “sintetica”?
Lo scatto di Tim Hetherington che ha vinto il World Press Photo nel 2008: è la foto del soldato americano con lo sguardo stralunato in un bunker in Afghanistan. Un documento drammatico ma lucido. Hetherington, tra l’altro, è rimasto ucciso poche settimane fa a Misurata, mentre faceva il suo lavoro di fotografo in un’altra guerra assurda.
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