Mondo
La guerra al sudan? Si fa da wall street
Dopo il flop iracheno, la nuova strategia americana di esportazione della democrazia passa attraverso i fondi di investimento...a cura di, Christian Benna
di Redazione
C?erano una volta le sanzioni. Quelle dure e pure: mura invisibili che diventavano embarghi (quasi) impenetrabili da cui non passava nemmeno un filo d?aria. Con Saddam non hanno funzionato. Pur piegando gli iracheni alla miseria, alla fine, per avere la meglio sul dittatore ci sono volute le bombe e una guerra. Oggi, però, al tramonto del volto duro dell?America neo-con, e all?alba della sempre più pressante rivoluzione verde, spunta il sorriso della finanza socialmente responsabile. Almeno sembra questa l?ultima trovata dell?impegno a stelle e strisce in favore dell?internazionale della democrazia, contro dittatori vecchi e nuovi, vicini e lontani.
Collabori con il Sudan che arma gli Janja-weed per massacrare senza pietà gli abitanti del Darfur? E allora sei fuori dal mio portafoglio di investimenti. A dichiararlo non sono solo quattro giovani attivisti pieni di buone intenzioni , ma diversi Stati del continente, dalla California alla Florida, tutti uniti nei rendimenti contro le ingiustizie. Uno dopo l?altro i governatori Usa firmano leggi anti Sudan. Che questa volta non hanno niente a che fare con i blitz degli F16 inviati da Clinton, proprio in Sudan, a caccia del fantasma di Osama. La trincea, ora, si scava lungo Wall Street e i principali listini finanziari del pianeta. L?obiettivo è stracciare dal paniere dei fondi pensione, come dai fondi di investimento, i titoli delle società, soprattutto nel campo degli idrocarburi, che lavorano nel Paese africano, e quindi sostengono indirettamente un regime accusato di genocidio.
Anche Fidelity, il più grande fondo di investimento al mondo, l?ha fatto. E ha chiuso le porte in faccia a PetroChina, il potente braccio petrolifero di Pechino. Allo stesso modo si è comportato Warren Buffett, mandando su tutte le furie gli azionisti della sua holding Berkshire Hathaway.
Nel martoriato Darfur, non sono ancora visibili i risultati dell?offensiva dei ?disinvestimenti?. Se molte compagnie occidentali si sono da tempo ritirate (ma non tutte, i francesi di Alstom non si schiodano), il grosso della pattuglia indo-cino-malese è ancora lì a trivellare a tutto spiano ricchi pozzi petroliferi e a fare ottimo business con il governo sudanese. Eppure a Washington tira tutt?altra aria. Aria di primarie, e anche i boicottaggi ?etici? vanno presi sul serio. Ma a farsi i conti in tasca i candidati non ci guadagnano. Anzi. Da destra a sinistra la vituperata Darfur spa è diventata motivo di profondo imbarazzo. Rudy Giuliani, ex sindaco di New York e in lizza tra i repubblicani per conquistare lo Studio ovale, aveva un milione di dollari di azioni di una multinazionale attiva in Sudan. Pizzicato dalla stampa, Giuliani ha dirottato altrove i suoi risparmi, che ammontano a una trentina di milioni. Stesso film e stessa gaffe africana per il democratico John Edwards. Perfino Barack Obama ha sbattuto il muso sulla campagna sudanese. Tutti sostenitori del Sudan Divestment, ma poco informati sui propri investimenti.
Diverso l?approccio dall?altra sponda dell?Atlantico. Nel Regno Unito, dove la finanza responsabile non è un animale mitologico ma un settore ormai maturo, funziona la regola dell?azionariato attivo. «Accanto alle imprese vincenti per best practice», ha detto Matt Christensen, direttore esecutivo di European Social Investment Forum, «si punta anche alla partecipazione in quelle meno trasparenti o con condotte più o meno ambigue, in modo tale da poter condizionare la governance d?impresa».
Per saperne di più: www.sudandivestment.org
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