Non profit
La legge Ciampi non è da cambiare
In occasione della 6ª Giornata Mondiale del Risparmio. Intervento di Giuseppe Guzzetti, numero uno dell'Acri
di Redazione

Si è celebrata oggi a Roma, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, l’86ª edizione della Giornata Mondiale del Risparmio, istituita nell’ottobre del 1924 in occasione del 1° Congresso Internazionale del Risparmio, svoltosi a Milano, e da allora organizzata annualmente dall’Acri, l’associazione delle Fondazioni di origine bancaria e delle Casse di Risparmio Spa.
Quest’anno il tema della Giornata è “Rigore e sviluppo nell’era del mercato globale”. Insieme al Presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, sono intervenuti: il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, il Presidente dell’Abi Giuseppe Mussari. Erano presenti alcune fra le più alte cariche dello Stato, numerosi esponenti del mondo politico e istituzionale, dell’economia e della finanza, la stampa e diversi rappresentanti dei consumatori e dei sindacati, per una partecipazione complessiva di oltre settecento persone.
Numerosi sono i temi toccati da Guzzetti, che ha colto l’occasione della Giornata Mondiale del Risparmio per fare il punto e dare risposte agli interrogativi in merito al ruolo delle Fondazioni di origine bancaria nel Paese, in particolare rispetto alle partecipazioni nel capitale delle banche. E cruciale è il messaggio che ha lanciato in merito a una eventuale riforma della normativa: “L’Acri ritiene, in maniera ferma, serena e tranquilla, che non c’è necessità di porre mano alla legislazione che riguarda le Fondazioni, attualmente in vigore, mi riferisco alla legge Ciampi, tanto per quanto riguarda il loro ruolo di investitori istituzionali privati, tanto per quanto riguarda il loro ruolo di soggetti erogatori per il welfare. Molti – autorità e opinionisti in questi anni, e tuttora, – ci riconoscono di aver operato correttamente su entrambi questi fronti. Ribadito che la legge Ciampi non è da toccare, siamo pronti a tutti gli approfondimenti e alle verifiche per migliorare la nostra attività: ma per migliorare, non per stravolgere una legislazione entrata in vigore nel 1999, ma che da soli 6 anni – cioè dal maggio 2004 – è pienamente operante… Voglio, poi, ricordare ancora una volta che c’è un’Autorità di Vigilanza prevista dalla legge, ed è il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che verifica la legittimità dell’operato delle Fondazioni; ed esercita il suo ruolo regolarmente, come dimostra la recente indagine sulla gestione dei patrimoni delle Fondazioni che, tra l’altro, ha segnalato come pienamente congruo il comportamento di chi le amministra. Questi i fatti; non le parole!”.
Riportiamo di seguito i passaggi fondamentali dell’articolato intervento di Giuseppe Guzzetti: il Paese; le Banche; le Fondazioni.
Il Paese
Guzzetti ha innanzitutto ricordato le cause prime di una crisi che non si è ancora conclusa: la carenza di regole a livello internazionale sull’attività finanziaria e su prodotti finanziari solo speculativi e l’accusa di “culpa in vigilando” verso alcune autorità di vigilanza di altri paesi “rispetto ai quali l’Italia si è totalmente differenziata in positivo .. un riconoscimento sentito va soprattutto all’azione di Banca d’Italia”.
“Nel nostro Paese la linea del rigore e del contenimento della spesa pubblica, condotta dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, on. Giulio Tremonti, ha impedito che il nostro Paese avesse più pesanti conseguenze, come è accaduto in Grecia”.
Peraltro, ha sottolineato: “Siamo consapevoli che alcuni importanti dati economico-sociali continuano a muoversi in senso sfavorevole: mi riferisco soprattutto alla dinamica del mercato del lavoro, dove la ripresa stenta molto ad arrivare e si preconizza che ci sarà ripresa con l’occupazione in calo”. Guzzetti ha perciò auspicato che si lavori “per creare una prospettiva sostenibile, per decidere cioè come attrezzare la nostra società nel nuovo scenario che la crisi ha determinato.. perché è chiaro a tutti che la dimensione globale ed epocale della crisi reclama cambiamenti in profondità, praticamente in ogni aspetto rilevante delle moderne società industriali”.
“Rigore e sviluppo sono due orientamenti che nel quadro economico attuale non possono essere pensati come alternativi. Adoperarsi per lo sviluppo senza aderire a una logica di rigore finirebbe con il riproporre un modello di crescita non sostenibile. Al tempo stesso, concentrarsi sul rigore senza preoccuparsi di conseguire risultati in termini di sviluppo potrebbe portare a sottovalutare pericolosamente le conseguenze di un indebolimento della coesione sociale. E questo tanto più in un paese, come il nostro, che negli ultimi anni ha visto ulteriormente crescere i propri squilibri storici: da quello geografico a quello generazionale, a quello di genere.
Per consentire che sviluppo e rigore possano convivere credo che un passaggio obbligato sia quello di riconsiderare le modalità dell’intervento pubblico – delle diverse voci di spesa, per misurarne qualità e quantità alla luce dei vincoli imposti dall’attuale situazione economica – e di ridurre significativamente l’evasione fiscale, che è confermata come una priorità determinante per lo sviluppo del Paese dalla gran parte degli Italiani – il 48% – come indica l’indagine che annualmente l’Acri realizza tramite Ipsos in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio. Peraltro voglio sottolineare che l’Agenzia delle Entrate sta conseguendo al riguardo importanti risultati.
Il Ministro Tremonti ha affermato che dopo la fase del rigore, lo sviluppo sarà la riforma fiscale. Sono d’accordo. Il nostro Paese necessità di una riforma fiscale vera, non fatta di slogan, e non fatta in deficit, ma fatta di soluzioni concrete. Ed una riforma fiscale per essere vera e concreta necessità di alcuni ingredienti imprescindibili. Deve portare a una distribuzione più equa del carico fiscale, che rifletta la nuova realtà sociale del Paese, di come questa è andata evolvendo negli ultimi 40 anni. Più equità richiede anche che l’apparato tributario sia più semplice e trasparente, comprensibile e condivisibile da tutti i cittadini. Deve essere in grado di introdurre gli incentivi appropriati alle scelte degli operatori economici del Paese, incentivi che promuovano la crescita comune e non solo l’interesse privato. Ed infine, un piano di riforma deve portare anche a una riduzione complessiva del carico fiscale. Ma affinché questo sia possibile, e non in deficit, è necessaria una identificazione chiara delle risorse disponibili per tali risparmi. Quali programmi di spesa pubblica tagliare. Come migliorare la lotta alla evasione fiscale. Proposte concrete, verificabili, non, come ho detto, solo facili slogan.
Aggiungo, poi, che fondamentale è anche che venga aumentata strutturalmente la capacità di investimento del nostro Paese. E su questo mi pare che un passo importante lo si stia facendo con il nuovo ruolo dato alla Cassa Depositi e Prestiti. Ricordo, solo, il fondo per sostenere la ricapitalizzazione delle Pmi che la crisi ha messo in difficoltà, ma che hanno potenzialità e progetti per poter guardare al futuro con fiducia. e il ruolo centrale sul piano di edilizia privata sociale che è in corso di attuazione con la costituzione del Fondo Investimenti per l’Abitare gestito da CDP Investimenti Sgr, partecipata dall’Acri e dall’Abi, per coinvestire in fondi locali e regionali. Tra pochi giorni – l’8 novembre p.v. a Parma, alla presenza del Ministro Tremonti – sarà presentato il fondo Parma Social House, in fase di finalizzazione delle sottoscrizioni e pronto a realizzare 852 alloggi. A seguire sono in fase di definizione, in altre regioni, ulteriori interventi. Voglio sottolineare la rapidità del primo intervento: esso si realizza a meno di 7 mesi dall’approvazione da parte di Banca d’Italia del Regolamento del Fondo Investimenti per l’Abitare”.
Le Banche
“A dare linfa ai germogli della ripresa non si sottrarranno le banche, nonostante il criterio del rigore si imponga loro per gestire con responsabilità l’erogazione dei crediti e, dunque, continuare a garantire al Paese un’industria bancaria solida, come i recenti stress test hanno confermato.
Più di altre, le banche italiane – particolarmente le Casse di Risparmio, che conoscono profondamente il mondo produttivo dei loro territori – hanno conservato nel proprio Dna una vocazione di servizio all’economia reale; non si sono lasciate permeare da quelle innovazioni finanziarie finalizzate alla predisposizione di prodotti destinati a dare soprattutto opportunità di profitto agli intermediari. E questo diverso modo di operare io lo trovo un valore da conservare. In Italia durante la crisi non c’è stato un razionamento del credito. Il rallentamento degli impieghi è stato minore di quello registrato dalle principali grandezze economiche e di quello osservato nell’insieme dell’eurozona. Questo anche in virtù di una conoscenza delle imprese che va oltre le evidenze di bilancio, ma beneficia del contatto personale con imprenditori e contesto: un radicamento nel territorio che ha permesso anche di non incorrere in gravi problemi di insolvenze, nonostante queste siano aumentate.
Quello del credito è un fronte su cui necessariamente rigore e sviluppo dovranno essere conciliati armoniosamente. Finanziare lo sviluppo ampliando gli impieghi potrà forse richiedere, con Basilea 3, rafforzamenti patrimoniali. Ma la solidità patrimoniale è sempre stata la caratteristica delle nostre banche e, sono certo, continuerà ad essere una sicurezza per i risparmiatori!…”.
Guzzetti ha peraltro evidenziato la necessità che si garantiscano “condizioni di parità, innanzitutto dal punto di vista fiscale, ai sistemi bancari dei singoli Paesi; e il sistema bancario italiano è certamente svantaggiato. Mi auguro che il legislatore voglia prendere in considerazione una modifica, equa seppure graduale, di quelle disposizioni che possono indebolire la capacità competitiva del nostro sistema bancario. Mi riferisco soprattutto al tema delle imposte differite attive”.
“Rigore – ha chiarito Guzzetti – vuol dire rispetto sostanziale, non solo formale, delle normative esistenti. Alla luce di quanto svelato dalla crisi, bisognerà rispettare anche quelle regole non scritte che definiamo codice etico: ovvero una effettiva tutela dei risparmiatori e la trasparente, onesta soddisfazione delle esigenze della clientela. La crisi dalla quale stiamo lentamente emergendo ha ben chiarito che un rigore così inteso non è una zavorra, ma è al contrario un prezioso salvagente. Se si guarda allo scenario internazionale si può osservare, infatti, che la tempesta finanziaria ha determinato conseguenze assai diverse sugli istituti di credito. Questa diversità è solo parzialmente spiegabile da differenze nel cosiddetto “modello di business”.
A mio giudizio, in molti casi a rendere più intenso l’impatto della crisi è stata invece la scelta del management di esasperare alcune fondamentali regole gestionali: una scelta incoraggiata dalla tesi che lo sviluppo di un’azienda è quasi interamente riassumibile nella formula “creare valore per l’azionista”. Come se le aspirazioni di tutte le altre parti coinvolte nello sviluppo dell’azienda fossero secondarie! Lo sviluppo prevalentemente derivato da una finanza fine a se stessa non può neanche essere lontanamente assimilabile a uno sviluppo capace di coinvolgere l’intera comunità economica e sociale di appartenenza. Da anni ormai si parla di responsabilità sociale di impresa; ebbene, la prima responsabilità sociale di un’impresa – innanzitutto per un’impresa bancaria – è intervenire positivamente sul proprio ambiente di riferimento, favorendone la crescita e lo sviluppo; certo, però, senza mettere a rischio la propria solidità ed efficienza, che sono esse stesse un vantaggio per le comunità di appartenenza, in quanto salvaguardano la possibilità di durare nel tempo della banca stessa”.
Le Fondazioni
A proposito dei possibili effetti delle regole di Basilea 3 sul rapporto tra Fondazioni e banche in termini di necessità di maggior capitalizzazione di queste e di minori dividendi per le altre, Guzzetti ha affermato: “Non intendo eludere questi temi. Cito una delle domande più ricorrenti: “Sono in grado le Fondazioni di prendere parte alle ricapitalizzazioni per mantenere le posizioni di forza attuali?”. La risposta di qualcuno è perfino stata: “Temo di no. Perché i soldi che hanno sono quelli che ricevono sotto forma di dividendi dagli istituti di credito, non avendo altre possibilità”.
Dico innanzitutto che in questa affermazione c’è una chiara confusione tra patrimonio e rendimento degli investimenti. Occorre, poi, rifuggire dalle superficiali generalizzazioni che confondono le diversità e le peculiarità proprie di ciascuna banca e gruppo bancario, peculiarità che sono da valutarsi distintamente in termini di solidità patrimoniale e rischi; ma aggiungerei anche in termini di liquidità e qualità degli attivi. Gli aumenti di capitale potranno essere utili, ma vanno valutati banca per banca, ognuna con condizioni patrimoniali e reddituali proprie.
A fine settembre 2010, delle 88 Fondazioni di origine bancaria 18 non hanno più partecipazioni dirette nelle rispettive banche conferitarie; 55 ne detengono una quota minoritaria; le altre 15 – che nel loro complesso, rappresentano solo il 4,5% del totale dei patrimoni delle Fondazioni – hanno più del 50%, compatibilmente alla deroga introdotta nel 2003. A oggi la media delle partecipazioni delle Fondazioni nelle banche è di poco superiore a 1/3 del totale dei loro attivi. Quasi un ventennio di oculate gestioni da parte delle Fondazioni hanno prodotto, dunque, ampie e crescenti diversificazioni negli investimenti.
Non condivido conclusioni preconcette, affrettate, addirittura anticipatrici di esiti non certi, riguardanti le evoluzioni delle solidità patrimoniali delle banche e degli investimenti in esse da parte delle singole Fondazioni: è un tema che appartiene alla consapevolezza e alle responsabilità delle singole banche e delle singole Fondazioni.
Le Fondazioni faranno la loro parte in un giusto equilibrio di tutela dei loro patrimoni e di solidità delle banche partecipate; e se sarà necessario, e risponderà a questi criteri, non si sottrarranno ad aumenti di capitale che si rendessero opportuni. In questo senso le nostre Fondazioni finora hanno acquisito meriti più volte riconosciuti, ed anche nel passato meno recente hanno dato prova di capacità di visione e di lungimiranza, con scelte determinanti nei grandi processi di rinnovamento e di aggregazione che hanno archiviato definitivamente quella che una volta veniva definita come la “foresta pietrificata”.
Sottolineo che, se la selezione degli impieghi delle banche sarà oculata, gli utili che ne deriveranno e la scelta di concentrarsi sul core business (dismettendo asset non necessari) potranno contribuire a mantenere ratios patrimoniali adeguati. Secondo una valutazione della Banca d’Italia, che tiene conto anche di una stima della futura capacità di reddito, le banche italiane saranno in grado di muoversi con gradualità verso livelli di patrimonio più elevati, continuando ad assicurare il necessario sostegno alle imprese. Posso, però, ribadire che, se l’attuazione degli accordi di Basilea 3 lo renderà necessario, le Fondazioni si comporteranno virtuosamente come in passato; e se bisognerà rafforzare il capitale sociale di qualche banca delibereranno di farlo.
Riguardo alla questione dei dividendi che le Fondazioni ricevono dalle banche, non siamo mai stati investitori esosi o che hanno messo a repentaglio la solidità delle loro banche per ottenere dividendi a ogni costo. Quando gli amministratori della banche di cui siamo azionisti hanno proposto di non pagarli abbiamo accettato le loro decisioni senza isterismi. Accadrà anche in futuro? Gli accantonamenti accumulati dalle Fondazioni nel passato ci consentono per alcuni anni di mantenere livelli erogativi accettabili per i nostri territori e le comunità di riferimento, anche in presenza di dividendi ridotti. Non è quindi il tema dei dividendi un argomento per attaccare le Fondazioni. E anche per questo tema – certo tra i più sensibili per le Fondazioni – ci comporteremo come in passato, con misura e responsabilità”.
In merito, infine, al preoccupato allarme sul rischio che le Fondazioni possano rappresentare la cinghia di trasmissione per mettere negli organi delle banche i rappresentanti dei partiti, Guzzetti ha sottolineato: “Innanzitutto la normativa vigente dispone la totale, sottolineo “totale”, incompatibilità tra gli amministratori delle Fondazioni e gli amministratori delle banche. Presidenti, consiglieri, sindaci, direttori e segretari generali delle Fondazioni non possono sedere negli organi delle banche, né delle società controllate e partecipate e pertanto non vedo quali ulteriori incompatibilità potrebbero essere introdotte oltre a quelle esistenti. Ribadisco che questa incompatibilità è condivisa dall’Acri, dai Colleghi e da me; e non abbiamo motivo di chiedere di modificarla. La garanzia dell’indipendenza del management delle nostre banche è confermata e sarà confermata dai nostri comportamenti anche in futuro. Quindi, più di tutte le illazioni, valgono i comportamenti passati e presenti, che sono lì a dimostrare la correttezza delle Fondazioni, e la conferma che questi comportamenti per noi varranno anche nel futuro: nessuna commistione tra Fondazioni e banche; reciproca autonomia e indipendenza.
Credo che nessuna persona ragionevole possa augurarsi lo scenario in cui sfocerebbe, inevitabilmente, oggi, una estromissione – di fatto o di diritto – delle Fondazioni di origine bancaria. Essa determinerebbe o la consegna delle banche ad azionisti stranieri o il ripristino delle prassi vigenti in un tempo in cui le interferenze politiche sulle banche erano la regola e i rapporti incestuosi non erano tra Fondazioni (che allora ancora non esistevano) e banche, ma tra banche e grandi (si fa per dire) gruppi industriali.
Nel loro ruolo di azioniste – e lo abbiamo dimostrato – le Fondazioni non metteranno mai a rischio la vitalità delle banche. Questo è interesse di chi nei nostri organi di governo c’è oggi e di chi ci potrà essere nel futuro: indipendentemente da quale sia il colore delle amministrazioni locali chiamate ad indicare i nomi dei consiglieri da designare nelle Fondazioni. Non è vero che gli enti pubblici (Comuni, Province, Regioni) abbiano la maggioranza negli organi delle Fondazioni; saggiamente la riforma “Ciampi”, ed in modo ancora più esplicito la sentenza n. 301/2003 della Corte Costituzionale, ha previsto che la componente “pubblica” non debba avere la maggioranza nell’organo di indirizzo; anzi, la componente pubblica deve essere minoritaria, spesso largamente minoritaria, in particolare nelle Fondazioni associative. Gli amministratori indicati dagli enti pubblici negli organi di indirizzo delle Fondazioni oggi sono il 29,48% del totale. Le Fondazioni, dunque, non sono la cinghia di trasmissione tra la classe politica locale, i partiti e le banche. Sono, invece, un diaframma tra le istanze anche più nobili della politica e l’interesse primario di soggetti privati profit – come le banche – per i quali creare valore finanziario non può certo essere la missione esclusiva, ma è senz’altro un obiettivo dal quale non possono prescindere in un corretto contesto di mercato. L’indipendenza della banca è per noi un punto irrinunciabile; e non saranno certo le Fondazioni a riportare i partiti nelle banche. L’Acri ritiene, in maniera ferma, serena e tranquilla, che non c’è necessità di porre mano alla legislazione che riguarda le Fondazioni, attualmente in vigore”.