Minori & Giustizia
La messa alla prova? A Brescia l’hanno fatta in università
“Messa alla prova in Università”: otto minori autori di reato e inseriti in procedimenti penali sono stati accolti nell’Università Cattolica di Brescia e seguiti da un’equipe di giovani professionisti. Il coordinatore Giancarlo Tamanza: «Inserire questi ragazzi nel contesto universitario potrebbe favorire la possibilità di realizzare attività non solo “socialmente riparative”, ma più connesse a processi di apprendimento e di acquisizione di conoscenze e competenze»

Un progetto innovativo, ideato dal Servizio di Psicologia clinica e forense e dal Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica, composto da studenti della Scuola di specializzazione in Psicologia clinica della facoltà di Psicologia, con la partecipazione della Direzione generale per la Giustizia minorile e di comunità del ministero di Grazia e Giustizia. Si chiama “Messa alla prova in università”, è unico in Italia e potrà diventare un modello da esportare. Dopo un anno di attività con otto minori, è stato fatto un primo bilancio con tutti i membri della Community conference, che sono stati chiamati nel campus di Mompiano.
L’ottica del progetto è stata quella di una ricerca-intervento e di sperimentazione sociale nell’ambito penale minorile e della giustizia riparativa, integrando aspetti di carattere scientifico-culturale con azioni di intervento socio-educativo e di promozione e diffusione di sensibilità culturale, civica e sociale.
«Il fatto di inserire adolescenti autori di reato in un contesto universitario potrebbe almeno in parte favorire la possibilità di realizzare attività non solo “socialmente riparative”, ma più direttamente connesse a processi di apprendimento e di acquisizione di conoscenze e competenze», dice Giancarlo Tamanza, coordinatore del progetto. «Inoltre, lavorare in un contesto sociale e relazionale non squalificante, almeno sotto il profilo della percezione sociale e istituzionale, favorirebbe la valorizzazione psicosociale del sé e la possibilità di vivere il percorso in termini non punitivi, ma autenticamente riparativi e riabilitativi».
Per ogni minore è stato realizzato un Piano educativo individualizzato – Pei, che prevedeva azioni socialmente utili per l’apprendimento e lo sviluppo di competenze e abilità, quali ad esempio attività segretariale di supporto all’attività di ricerca (trascrizione di interviste, inserimento dati, correzione bozze, ricerche bibliografiche), corsi di inglese e di spagnolo, alfabetizzazione informatica.
Questi minori, per l’attività di messa la prova, anziché andare a fare lavori socialmente utili, più o meno sensati o valorizzanti, cono venuti in università, facendo attività con una valenza formativa
Giancarlo Tamanza
Tamanza, ci racconta quest’esperienza?
È stata molto faticosa e impegnativa, ma con dei risultati incoraggianti. Gli interventi con i ragazzi si fanno da tanto tempo, ma abbiamo provato a introdurre in questa sperimentazione tre aspetti nuovi. Il primo è che l’università è stato il centro dell’organizzazione e delle attività, i ragazzi fisicamente sono venuti all’università e hanno partecipato ad una serie di incontri con le nostre psicologhe della scuola di specializzazione, che hanno fatto delle attività interne. Questi minori, per l’attività di messa la prova, anziché andare a fare lavori socialmente utili, più o meno sensati o valorizzanti, hanno fatto tutte le attività all’interno di un ambiente universitario dando il segno, da un lato, di una valorizzazione del contesto e, dall’altro, avendo l’opportunità di fare attività che avessero anche una valenza formativa: tutto il percorso aveva come orizzonte quello di sostenere i processi di crescita dei ragazzi.
C’era il dubbio che inserire dei ragazzi non particolarmente scolarizzati e non così allineati agli standard medi degli universitari, potesse essere problematico. Invece questo aspetto è stato vissuto molto bene. I percorsi che i ragazzi hanno fatto all’interno dell’università erano, in parte, individualizzati, differenziati. In qualche caso, alcune attività, ovviamente accompagnate e monitorate dai nostri psicologi, hanno coinvolto i nostri studenti. C’è stata, quindi, anche un’occasione di confronto tra coetanei così differenti come appartenenza sociale e come condizioni psicologiche.
La seconda particolarità del progetto?
Un’altra novità dell’esperienza è che abbiamo voluto affiancare all’intervento più classico, riabilitativo, dei singoli ragazzi, l’apertura alla dimensione istituzionale comunitaria. Abbiamo organizzato una prima conference a gennaio, il 17 giugno abbiamo fatto una conference di chiusura, che non è stata solo un momento di comunicazione del progetto e di sensibilizzazione del territorio. Siamo convinti che ci debba essere anche una partecipazione territoriale, che il progetto debba riguardare le istituzioni locali, prima di tutto, ma anche la comunità che spesso è fatta da persone che sono vittime dei reati. In una logica di promozione di una cultura riparativa e di partecipazione, questo secondo aspetto è stato molto interessante e ha prodotto anche risultati concreti.

Quali risultati concreti?
A seguito della prima conference, dove abbiamo coinvolto una novantina di persone tra rappresentanti di istituzioni, di gruppi del territorio, di genitori, di ragazzi, di persone del quartiere, c’è stata una risposta spontanea molto interessante. Un gruppo di genitori ha deciso di sostenere questo progetto, facendo una raccolta fondi. Lo stesso ha fatto un’associazione del territorio, che appoggia ogni anno un progetto. Queste iniziative, più che da un punto di vista economico, sono significative dal punto di vista simbolico. Gli insegnanti si sono resi disponibili a partecipare, ad affiancare i ragazzi in questo percorso in parte come volontari alle attività, incrementando la qualità dell’offerta. È stato interessante il fatto di aver aperto un aspetto partecipativo, di aver suscitato la risposta di alcune persone che non era attesa.
Qual è il terzo aspetto che può considerarsi innovativo del progetto, a cui faceva riferimento?
Il terzo aspetto che contraddistingue il programma è quello di lavorare creando connessioni tra le diversi istituzioni. Questo è bello ma anche molto faticoso. Nel programma sono intervenuti l’università, attraverso il nostro servizio di psicologia clinica e forense e con i nostri studenti della scuola di specializzazione. Ciò ha portato, da un lato, la parte più tecnica di matrice psicologica, (questo è il nostro mestiere), e la parte più organizzativa e di direzione generale.

Le attività sono state programmate insieme al servizio sociale dei giovani minorenni, che sono i gestori del percorso processuale di ogni ragazzo, e tre realtà di privato sociale che hanno fatto ciascuno un pezzo specifico. Mettere insieme realtà con, ognuna, i suoi criteri, i suoi ritmi, le sue necessità richiede molto lavoro di integrazione e di programmazione. Essere riusciti a condividere fin dall’inizio il progetto e portarlo a termine, è già un risultato. Si tratta di vedere se, da questa prima esperienza, imparando dalle cose che non siamo stati capaci di fare fino in fondo, potrà venir fuori un rilancio che porti a proseguire la collaborazione in modo più stabile.
Quali sono state le attività che hanno svolto i ragazzi?
Tutti hanno condiviso le tre attività più importanti: un percorso di accompagnamento, di valutazione e di consultazione psicologica; un percorso di gruppo di trekking therapy; un percorso di gruppo di parola sulla rielaborazione del reato. Poi ogni ragazzo ha seguito un percorso individualizzato. Supervisionati dai tutor, abbiamo seguito i loro interessi, affinchè il progetto avesse una valenza formativa. Ad esempio, alcuni di loro hanno approfondito una lingua straniera (spagnolo o inglese). Un insegnante dell’Accademia di Belle Arti ha fatto con un ragazzo un percorso di avvicinamento alla fotografia creativa, altri hanno seguito un corso informatico di base. Come sempre in questi casi, con i ragazzi il progetto è andato in alcuni casi molto bene, in altri meno bene: le situazioni sono complesse.
Foto dell’ufficio stampa Università Cattolica. In apertura, una foto del percorso di trekking therapy fatto durante il progetto “Messa alla prova in università“
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