«La guerra è stata fatta per proteggere i civili. Ma dei civili non si sa quasi nulla». Laura Boldrini, portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati, l’Unhcr, usa due parole pesanti per definire l’attuale situazione umanitaria in Libia: silenzio e stallo.
Perché c’è silenzio su quanto accade in Libia?
Ormai abbiamo imparato quali tipi di aerei vengono usati, gli armamenti a disposizione, abbiamo aggiornamenti su chi perde terreno e su quali forze invece sono in vantaggio. Quasi come se tutto si risolvesse in una questione puramente militare. Sul resto è come se la faccenda non interessasse. Cosa si sa della vita quotidiana in Libia? Non sappiamo ad esempio se i bambini possono andare ancora scuola o no, se si possono trovare generi alimentari al mercato, quanto costano questi generi alimentari. Si sa molto poco anche della situazione negli ospedali, se ci sono le medicine o meno. Mi colpisce anche il fatto che ogni volta che ci sono degli sbarchi a Lampedusa si continui a parlare di emergenza, reagendo quasi con sorpresa. Come se non fosse ovvio che quando c’è una guerra le persone cercano di mettersi in salvo.
C’è quindi una percezione che non corrisponde alla realtà?
Si è perso di vista quanto sta accadendo nei Paesi confinanti. Sono un milione le persone fuggite dalla Libia a causa del conflitto. Si tratta di persone che erano lì per lavorare e che sono ritornate nei Paesi d’origine, famiglie libiche che si sono sistemate presso famiglie ospitanti in Egitto o Tunisia. Poi ci sono rifugiati che non possono tornare nei Paesi d’origine, che si sono sistemati nei campi o che stanno tentando la sorte attraversando il Mediterraneo.
Si continua a sottolineare la necessità di creare corridoi umanitari. Qual è la situazione al momento?
Di stallo. Parlo soprattutto dei rifugiati che vivevano in Libia e non hanno la possibilità di tornare nei propri Paesi d’origine. Alcuni di loro si sono spostati nel campo profughi di Choucha, in Tunisia, dove però non c’è alcuna prospettiva di futuro. Tanto che in molti sono tornati in Libia per tentare la traversata del Mediterraneo. Si tratta di poche migliaia di persone. Ma la comunità internazionale su questo non è molto attiva. Se non abbiamo la possibilità di offrire ai rifugiati delle soluzioni alternative, perché non ci sono le quote per fare i trasferimenti legali, il risultato è che queste persone decidono di rischiare la vita tornando in Libia, e azzardando la via del mare.
L’impressione è che gli interventi umanitari, anche delle agenzie Onu, siano limitati e difficoltosi. Come sta operando l’Unhcr in Libia?
Abbiamo mandato gli aiuti attraverso la Mezzaluna rossa egiziana che li ha consegnati alla Mezzaluna rossa libica. Per noi c’è anche una questione di sicurezza che non va sottovalutata. Da qui la decisione di intervenire usando altri canali. Abbiamo un ufficio a Tripoli che però ora non è operativo e stiamo operando nella zona di Bengasi con missioni ad hoc, sempre attraverso la Mezzaluna rossa e altre ong.
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