Leggo in una rassegna stampa sull’innovazione sociale in corso di faticosa realizzazione: “Si delinea così un nuovo approccio alla crescita: le scelte economiche non devono più essere rivolte alla creazione di ricchezza da cui ricavare, attraverso la tassazione, i fondi necessari alla soddisfazione dei bisogni sociali, bensì alla costruzione di connessioni tra le istanze economiche e sociali”. E’ una sintesi efficace, una delle prime che mi è capitato di trovare, dei significati che sostanziano la piattaforma politica dell’innovazione sociale. Un concetto quest’ultimo che solitamente si presta più a esemplificazioni che a definizioni teoriche. Oppure, come in questo caso, si definisce attraverso una linea guida strategica che dice: le forme tradizionali di mutuo adattamento tra Stato e mercato che hanno fin qui governato lo sviluppo non funzionano più. Le imprese guidate esclusivamente dall’imperativo della massimizzazione economica hanno generato squilibri sociali e ambientali che sono molto difficili (o impossibili) da riparare. D’altro canto lo Stato fa sempre più fatica, per limiti suoi e per la consistenza dei problemi da affrontare, ad impiegare efficacemente le risorse economiche raccolte con le tasse e redistribuite per finanziare sanità, salvaguardia dell’ambiente, ecc. Meglio quindi che la dimensione della “socialità” variamente declinata – sostenibilità ambientale, protezione sociale, ecc. – venga incorporata (embedded direbbero gli inglesi) nei processi di produzione di una ricchezza che, a questo punto, non è più solo economica ma, come sostengono Porter e Kramer nel loro saggio pluricitato, “valore condiviso”. Non male come programma politico.
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