Adolescenti
L’intelligenza artificiale ci può insegnare ad essere più umani?
Tutto ci insegna umanità. Perfino i social. Addirittura l’Ai. Ne è convinta Angela Biscaldi, professoressa associata di Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Milano. «I ragazzi quando vengono coinvolti e responsabilizzati vivono davvero e stanno bene, altrimenti si rivolgono a Chat Gpt per essere ascoltati»

Tutto ci insegna umanità. Perfino i social. Addirittura l’Ai. Ne è convinta Angela Biscaldi, professoressa associata di Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Milano. Altrimenti non si spiegherebbe perché sempre più giovani – e sono più di quanti potremmo immaginare – usano Chat Gpt come confidente. No, non stiamo parlando di una generazione “fragile”. Piuttosto di ragazzi e di ragazze “vulnerabili” a causa del contesto e dell’educazione. In una parola: a causa degli adulti. Ecco perché l’esperienza di Angela Biscaldi può essere un’utile guida per chi ha una responsabilità educativa. Quindi più o meno per tutti gli adulti, anche se non hanno figli o nipoti e non sono insegnanti o educatori. Di fatto diventare adulti, molto in sintesi, significa avere consapevolezza di essere persone chiamate a una responsabilità all’interno della propria comunità.
«Oggi però», dice, «molti genitori sono spaventati, perciò, arresi al senso di impotenza, abbandonano i figli davanti agli schermi oppure li controllano troppo. Francamente sono preoccupata di come si stanno affrontando – da parte della famiglia e della scuola – la proibizione e il controllo. Usati unicamente in modo coercitivo, non aiutano a crescere. Piuttosto gli adulti, primi fra tutti i genitori, dovrebbero accompagnare i ragazzi a scegliere contenuti adatti alla propria età e possibilmente con un senso; a usare un linguaggio corretto anche nel mondo digitale; a gestire i tempi davanti agli schermi».
Perché un eccessivo controllo non aiuta la crescita?
Perché sotto controllo non si ha la possibilità di sviluppare il pensiero autonomo né la capacità di gestire il proprio tempo. Purtroppo in Italia non ci sono sufficienti luoghi né momenti di reale e profondo confronto educativo. Perché per primi andrebbero educati gli adulti.
E la scuola?
Anche io sono genitore di due ragazzi adolescenti e sogno da tempo una scuola che, invece ci elencarmi i voti, mi chieda: Che persona desideriamo costruire insieme? Quale idea di umanità abbiamo in comune e come possiamo renderla generativa? Oggi la Gen Z giustamente è stanca di essere valutata solo sulla performance.
Ce lo ha dimostrato la protesta dei maturandi…
Esattamente. Come ho scritto in proposito, i ragazzi che si sono rifiutati per protesta di sostenere la prova orale all’Esame di Stato vanno ascoltati: vogliono essere considerati, diventare interlocutori, prendere parola e progettare attivamente il loro futuro. Ce lo chiedono con coraggio e meritano rispetto. Chiedono una scuola diversa per una società diversa. Chiedono senso. Lo chiedono davvero in questo momento storico complicato, dove l’unica risposta possibile è riparte dall’umanità. Hanno ragione i ragazzi a opporsi a una scuola che ha adottato il linguaggio e la logica aziendale – fatta di crediti, certificazioni, badge, indicatori e misurazioni – e la sua corrispondente visione di uomo neoliberale – individualista, competitivo, performante, eccellente – e si è allontanata dalla sua promessa educativa originaria e fondativa: l’attenzione e la cura per la crescita complessiva dell’umano nella sua relazione con mondo sociale e naturale. Quella che ci si affretta a liquidare come fragilità, è invece l’angoscia generata da questa progressiva disumanizzazione e burocratizzazione, in tempi in cui, invece, sarebbe sempre più necessario lavorare in direzione della fondazione comune di una nuova antropologia dell’educazione. I giovani chiedono giustamente di avere un ruolo attivo in questo necessario cambiamento di paradigma.
Eppure, come lei stessa ha sottolineato, perché mai il sistema educativo dovrebbe funzionare in modo diverso dalla società di cui è espressione e perché mai dovrebbe funzionare in modo diverso dalla società che esso stesso concorre a riprodurre?
Perché la narrazione sociale oggi mette al centro la paura. I genitori e la scuola si sentono impotenti e quindi o rinunciano al cuore dell’educazione oppure reagiscono con il controllo e la richiesta di performance, sempre perché hanno paura. Ma, chiediamoci, a chi giova la paura? Se pensiamo ai nostri genitori, ossia ai nonni della Gen Z, non avevano così tanta paura. Perché? Oggi non possiamo mandare i nostri figli alle elementari da soli… Io abito di fronte alla scuola primaria che ha frequentato la mia prima figlia. C’è una strada da attraversare. Eppure dovevo accompagnarla fino al cancello, perché il dirigente non permetteva che attraversasse quella strada da sola. Così dice il regolamento scolastico. Al secondo figlio ho cambiato scuola. Questo esempio, paradossale eppure non così raro, mostra il grado di deresponsabilizzazione istituzionalizzata a cui siamo arrivati. Ecco perché oggi i ragazzi denunciano che la scuola è sempre più un luogo di esercizio del potere e del controllo e non uno spazio di espressione, negoziazione e promozione delle responsabilità.
Di fronte a questo, quando non protestano, cosa resta ai ragazzi?
In mancanza di punti di riferimento di senso e di luoghi realmente educativi, restano gli schermi. In particolare i social in cui molti giovani trovano l’unico spazio di libertà, ma resta anche molto spazio per rifugiarsi nelle dipendenze (da sostanza e comportamentali come per esempio il gioco d’azzardo). Ci abbiamo mai pensato? Se fin da quando sei un bambino, ti censuro le esperienze fisiche, perché sono pericolose oppure ti impedisco di essere diverso dagli altri e ti spingo ad eccellere, allora l’unica cosa che ti rimane è uno spazio di libertà nel digitale, dato che ormai il cellulare te lo do già alle elementari. Noi adulti abbiamo dimenticato che l’ambito educativo implica naturalmente dei rischi. Proprio come la vita! Invece in tante scuole materne hanno eliminato il gioco libero. Solo giochi strutturati. Ma il bambino come fa a imparare a gestirsi nello spazio, a fare delle scelte in modo libero e responsabile, senza la libertà di muoversi e di rischiare?
Come se gli schermi non avessero rischi…
Esattamente. Eppure molti adulti non percepiscono la pericolosità del mondo digitale. L’importante è avere sott’occhio i figli. Averli fisicamente lì.
Quali soluzioni propone?
In famiglia, l’ascolto. Fermiamoci e ascoltiamo i nostri figli che, ripeto, chiedono senso, significato, uno sguardo umano. Nella scuola invece servono educatori competenti che vanno formati e che sappiano far riflettere i genitori, senza paura! La Gen Z ha un disperato bisogno di punti di riferimento ‘coraggiosi’ e di testimonianze credibili. Di relazioni umane che non siano inquadrate dall’alto in tassonomie precostituite. Quando questo avviene, succedono miracoli! I ragazzi quando vengono coinvolti e responsabilizzati vivono davvero e stanno bene, altrimenti si rivolgono a Chat Gpt per essere ascoltati.
È un fenomeno diffuso?
Purtroppo sì. Mi sento solo… Mi ha lasciato il ragazzo… Non sono accettato dal mio gruppo di amici… D’altronde l’Ai è sempre disponibile e non giudica. Quando ho letto questa frase con cui Chat GPT ha chiuso una conversazione, mi si è accesa una lampadina: “Sarò qui ogni volta che ne avrai bisogno”. Chi mi ha mai detto una frase di questo genere? Ma soprattutto: Forse noi per primi dovremmo dirla ai nostri figli! Ecco, l’Ai mi ha insegnato ad essere umana, perché evidenzia in modo lampante quali sono i nostri bisogni. Davvero tutto ci insegna umanità. Allora con questa consapevolezza e in quest’ottica dovremmo insegnare ai nostri figli a usare la tecnologia in modo umano e a favore della crescita personale. Per esempio i social sì, ma per costruire comunità reali e fare rete per generare una nuova collettività. Vogliamo farlo?
Credit foto Pixabay
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