Dipendenze

Droga, l’assessora di Bologna: «Non distribuiamo pipe per salvare vite, ma per “agganciare” le persone»

«Non sono le pipe, non sono le siringhe, non sono i kit a fare la vera differenza», scrive l'assessora al Welfare e Sicurezza Urbana del Comune di Bologna, Matilde Madrid. «Sono le persone. Chi lavora in strada sa bene che la riduzione del danno non è mai stata solo distribuzione di materiali: è presenza quotidiana, ascolto, accompagnamento. Confondere la cura delle ferite di una vita con la normalizzazione del consumo significa fraintendere il senso stesso del lavoro socio-sanitario»

di Matilde Madrid

Ha fatto molto discutere la scelta del comune di Bologna di acquistare circa 300 pipe per il crack, con l’obiettivo di distribuirle ai consumatori nell’ambito di una strategia di “riduzione del danno”. Ma quando parliamo di dipendenze l’unica cosa ad essere sterile sono le diatribe politiche. Al centro delle discussioni vanno messe le persone. Qualche giorno fa abbiamo ospitato sul sito di VITA l’intervento di Simone Feder, psicologo della Casa del Giovane di Pavia, lo trovate qui “Droga: i giovani che vivono la disperazione non hanno bisogno di pipe sterili, ma di mani che li accompagnino fuori dal buio”. Sotto trovate, invece, l’intervento di Matilde Madrid, assessora al Welfare e Sicurezza Urbana del Comune di Bologna, che ha dato il via alla sperimentazione.

C’è una frase, nell’intervento di Simone Feder, che voglio riprendere all’inizio di questo contributo sul dibattito nato attorno alla sperimentazione del Comune di Bologna sulla distribuzione di pipe per il crack, perché colpisce nella sua verità: “non sono gli oggetti sterili a salvare o a cambiare una vita”. 

È così. Non sono le pipe, non sono le siringhe, non sono i kit a fare la vera differenza. Sono le persone. Professionisti e professioniste che, attraverso questi strumenti, provano ad aprire una crepa nel muro di stigma e abbandono che circonda chi vive ai margini più estremi della società.

In questi contesti, la prima urgenza è costruire una relazione. Una relazione che deve essere non giudicante. Le persone fortemente dipendenti da sostanze che vivono in condizioni di grave marginalità sono spesso senza reti di sostegno, fanno vita di strada, incontrando solo sguardi stigmatizzanti che li spingono ancora più lontano dai servizi e dalla consapevolezza di sé. Offrire invece rispetto e accoglienza può aprire uno spazio nuovo, dove il cambiamento diventa possibile.

Matilde Madrid

È comprensibile che qualcuno tema il rischio di un messaggio ambiguo. Ma confondere la cura delle ferite di una vita con la normalizzazione del consumo significa fraintendere il senso stesso del lavoro socio-sanitario. Nessuno pensa che distribuire siringhe equivalga a legittimare l’eroina; nessuno crede che offrire preservativi significhi promuovere rapporti a rischio. Sono misure di salute pubblica riconosciute a livello internazionale, con solide evidenze scientifiche, e dal 2017 inserite nei Livelli Essenziali di Assistenza. Ridurre i danni del consumo di sostanze (infezioni, overdose, lesioni) e limitarne i rischi, oltre a produrre un impatto sulla salute, significa mantenere un contatto aperto con chi altrimenti resterebbe invisibile ai servizi.

Non è una scelta ideologica, né una resa di fronte all’abuso delle droghe. Al contrario, è uno dei quattro pilastri delle politiche europee sulle dipendenze, insieme alla prevenzione, a cura e riabilitazione e -ovviamente- alla lotta al narcotraffico. Non li sostituisce, li integra, per raggiungere chi altrimenti resterebbe escluso da ogni possibilità di supporto.

Consegnare una pipa non significa normalizzare il crack: significa guardare in faccia la realtà di chi lo consuma già oggi, spesso in condizioni che moltiplicano il rischio di malattie e lesioni, per la dipendenza, lo stile di vita e l’utilizzo di strumenti autocostruiti altamente pericolosi. Da lì può nascere una conversazione, un invito, un aggancio. Da quel riconoscersi, proprio nell’abisso, può scoccare una scintilla di fiducia in chi non si fida neanche più di se stesso.


Ed è qui che la riduzione del danno mostra un altro aspetto della questione. Viviamo in una società che si fonda sulla competizione e sul successo a ogni costo, che non perdona un errore umano, che si rifiuta di riconoscere la fragilità come parte della vita, e infine si indigna nel vedere “lo scarto” di questo modello di sviluppo. Dare una pipa significa in fondo anche ribadire un principio diverso: “ti riconosco come persona per quello che sei, ora, nella tua fragilità. Se vuoi possiamo fare un po’ di strada insieme”. È un gesto che scardina la logica dell’espulsione e restituisce dignità a chi ne è stato privato.Ricerche internazionali confermano che chi entra in contatto con i servizi di riduzione del danno ha una probabilità molto più alta di prendere coscienza della propria salute e, molte volte, di arrivare a dire: “aiutami, dimmi cosa posso fare per uscirne”.

Chi lavora in strada sa bene che la riduzione del danno non è mai stata solo distribuzione di materiali: è presenza quotidiana, ascolto, accompagnamento. È fatica, spesso enorme. È l’opposto della resa. È la cura che si fa servizio pubblico. E anche qualora l’uscita definitiva dalla dipendenza non venga raggiunta, ogni intervento produce comunque salute pubblica. Ogni infezione evitata, ogni overdose scongiurata, ogni persona che mantiene un contatto con i servizi è un risultato che riduce sofferenze individuali, tensioni nella comunità e costi collettivi.

Certo, non basta. Nessun operatore della riduzione del danno lo ha mai sostenuto. Ma senza questo primo passo, molti – tra i più fragili e invisibili – non arriverebbero mai al secondo. Senza un gesto concreto che riduca il rischio immediato, non ci sarebbe il tempo necessario per costruire un’alleanza.Servono tantissimo i percorsi educativi, i luoghi di cura, le comunità terapeutiche. Ma servono anche strumenti che permettano di incontrare chi non è pronto per tutto questo, senza lasciare che scivoli ancora più in basso. Perché non ha senso dire: “ti aiuto solo se prima dichiari di voler smettere”. Chi governa ha la responsabilità di supportare e accompagnare anche chi non è pronto per questo, o magari non lo sarà mai. 

Non c’è contrapposizione tra “pipe per il crack” e “mani tese”. Le une non esistono senza le altre. Gli strumenti hanno senso solo perché sono consegnati da mani che sanno accompagnare, con professionalità e rispetto. Parlare oggi di riduzione del danno significa parlare di persone, di professionisti che ogni giorno sono là dove spesso non arriva nessun altro. È a loro che dobbiamo guardare se vogliamo comprenderla davvero: uomini e donne che non rinunciano a educare, ma lo fanno partendo dalla realtà, non da un ideale astratto. Che non rinunciano a combattere, ma combattono innazitutto contro stigma, isolamento, abbandono.

Non distribuiamo dunque le pipe per “salvare” delle vite: lo facciamo perché dal pieno riconoscimento della persona nel suo stato di massima fragilità possiamo accendere, con il tempo, quelle domande profonde sulla vita e sulla morte che appartengono a ogni essere umano. Se anche solo una persona riuscirà a dare una risposta a quelle domande, avremo fatto un buon lavoro.

Foto Claudio Furlan – LaPresse

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