Famiglia

Le locuste bussano alla porta del non profit

I finanzieri del capitale di rischio si uniscono e lanciano una fondazione che aiuta i bambini dei quartieri difficili. Ma i genitori restano senza lavoro e le imprese piene di debiti

di Redazione

Anche i cattivi ragazzi hanno un cuore. Perfino quelli terribili del private equity, i nuovi re del capitalismo che imperversano in mezzo mondo spostando con le loro maxi operazioni masse da 400 miliardi di dollari.

Comprano aziende decotte con l?effetto leva (a debito), puntano alla massimizzazione dei profitti grazie a spartane razionalizzazioni d?impresa e poi, nel giro di qualche anno, vendono la società a un altro fondo o la quotano in Borsa, magari spezzettata in tante parti, per ricavarci il più possibile. In Germania li chiamano senza affetto ?locuste?, in Italia invece aleggia il mistero sui nuovi ?padroni senza volto? mentre negli Usa è ormai entrata in voga la poco lusinghiera etichetta di ?barbari?, presa in prestito dal bestseller di Bryan Burrough che ha raccontato la battaglia da 38 miliardi di dollari del fondo KKR per la conquista di Nabisco. Era il 1988. E i 31 miliardi di dollari sborsati, per il 95% ricorrendo a prestiti, rappresentavano la cifra più alta mai pagata per un?azienda commerciale. Da allora quel record è stato battuto in più occasioni dalla corsa senza freni del ricco universo del private equity. Tante volte che tra i detrattori non ci sono più solo anti capitalisti di professione, ma anche una nutrita schiera di sostenitori del libero mercato che temono la bolla speculativa generata dalla girandola di compravendite, con l?asticella del prezzo sempre più alto. In un recente editoriale del Financial Times, l?economista Stefan Stern cerca e indica i possibili «antidoti», come lo statuto delle cooperative, allo strapotere delle finanziarie di capitale di rischio, che mettono a repentaglio posti di lavoro e la solidità del sistema produttivo. Ora per proteggersi dalla pioggia di critiche e dalle minacce di una pesante stretta normativa sul loro raggio di azione, i più grandi fondi del pianeta (una trentina di finanziarie) si sono radunati sotto l?ombrello di una fondazione filantropica, la Private Equity Foundation. Circa 10 milioni di euro in pancia e un piano di erogazioni, ancora da definire, a sostegno del non profit, soprattutto verso le charities inglesi che si occupano di disagio minorile. Poca cosa la manciata di milioni rispetto al talento di fundraising dei suoi soci: Kolhberg Kravis Roberts & Co, Bain Capital, Blackstone, Permira, Texas Pacific Group, gruppi capaci di raccogliere miliardi convincendo anche tranquilli fondi pensione. L?ingresso sul palcoscenico della beneficenza non ha però ottenuto il successo auspicato. A rovinare la festa all?accolita dei manager del private equity ci hanno pensato i sindacati che hanno picchettato il gran gala londinese accompagnati dai disoccupati, vittime delle ?razionalizzazioni?. Contattato, il ceo della fondazione, Ramez Sousou ha preferito non commentare perché «impegnato nella gestione del business» e poco propenso a rilasciare interviste.

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