Generalmente le aziende non profit dividono le spese sostenute in tre grandi categorie: costi per i programmi, costi di fundraising e costi generali e di gestione, ma questa divisione non è sempre agevole, perché i confini tra una categoria e l’altra a volte sono molto labili. Ad esempio un’azienda non profit può avere dei costi legati alla stampante come la carta, il toner, l’elettricità e la manutenzione, ma poiché quella stessa stampante è utilizzata per scopi amministrativi, di fundraising e per i programmi, i costi dovrebbero essere divisi tra le tre categorie. Un altro esempio è il tempo di lavoro degli operatori che hanno diverse mansioni. Per la maggior parte delle non profit gli stipendi rappresentano il costo maggiore e le ore di lavoro degli operatori non vengono suddivise per categorie, e anche laddove viene fatto, può accadere che sia classificato come costo per i programmi per cui il denaro è stato raccolto, invece che, come sarebbe giusto, come costo di fundraising. Questo vanifica tutti gli sforzi volti a classificare le ore di lavoro secondo l’esatta categoria di appartenenza. Se i parametri utilizzati da una non profit per “classificare” il lavoro svolto sono diversi da quelli di un’altra, non può esserci un sistema equo di misurazione dell’efficienza.
Ma il fatto è che nonostante questa impossibilità a misurare la loro efficienza, le non profit sono messe sotto pressione e cercano di far sì che i costi generali si mantengano bassi. Poi, ricorrendo a degli stratagemmi per abbassare i costi di fundraising, fanno credere che sia possibile attenersi a quegli standard. Le non profit in teoria possono scegliere fra due opzioni: 1) trovare un modo per aggirare una serie di regole sbagliate e rispettare “in apparenza” gli standard imposti, oppure 2) affrontare il giudizio delle agenzia di controllo, dei media, dello Stato o dei donatori e rischiare la sopravvivenza. Ma in pratica non c’è scelta: se si vuol sopravvivere si è costretti a dire il falso.
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