Welfare
Le parole che cambiano / Pena
È ora di ripensare il concetto, e di sganciare la pena dalla detenzione. Anche perché, dice Alessandro Margara, il carcere a tutti i costi trasforma i rei in vittime. Meglio puntare sulla riparazione
di Redazione
A farci capire che bisognava riflettere sull?evoluzione della parola pena è stata una constatazione numerica. Fra detenzioni, misure alternative e pratiche pendenti presso i tribunali di sorveglianza, in Italia l?area penale è arrivata a coinvolgere 190mila persone. Nel 1990 erano 36.300. Una moltiplicazione tale da suggerire il conio della formula ?Stato penale?, che ormai nel vocabolario dei maggiori esperti di questioni giudiziarie ha sostituito quella di ?Stato sociale?. Come spiegare questi dati? E questa nuova formula?
Pena, s.f. 1. Punizione stabilita dall?autorità giudiziaria competente comminata a chi si sia reso colpevole di una violazione della legge. 2. Stato di sofferenza fisica e, soprattutto, morale. 3. Cura, sollecitudine, fastidio
(dal Dizionario italiano Sabatini Colletti)
Il significato culturale della pena è lo stesso di 15 anni fa oppure ha subito un?evoluzione rimasta ancora sottotraccia che esploderà nell?immediato futuro? Ci abbiamo ragionato con Alessandro Margara, padre del regolamento penitenziario attualmente in vigore ed ex capo del Dipartimento dell?amministrazione penitenziaria. Queste problematiche hanno costituito il suo terreno di lavoro per oltre 50 anni.
Vita: Che cos?è la pena oggi e che cos?era 15 anni fa?
Alessandro Margara: La parola in se stessa non ha subìto alcuna modificazione. La sanzione penale era e rimane la risposta sociale alla commissione di un reato previsto dalla legge. Ciò che è profondamente cambiato è la sfera di competenza della pena, che oggi è molto più allargata di allora.
Vita: In termini concreti, questo che cosa vuol dire?
Margara: Il furto, la rapina, il sequestro, la violenza sessuale e in generale ogni reato contro la persona sono condotte che impediscono le relazioni fra le persone. Da qui si è passati a punire i comportamenti che disturbano la vita sociale. Così l?estensione della pena ha cominciato a comprendere l?area del disagio, l?immigrazione e le dipendenze prima di tutto. E infatti oggi nelle carceri ci sono soprattutto stranieri e tossicodipendenti.
Vita: Da dove nasce questa trasformazione?
Margara: Il passaggio dallo Stato sociale a quello penale è un effetto di azioni e reazioni. L?aumento dell?intolleranza sociale senza alcun dubbio è stata la miccia che ha accesso questo processo. Quindici anni fa, gli immigrati, forse anche perché erano meno, non generavano un fastidio così acuto. Lo stesso l?ubriacone. In questi anni la società è diventata più severa di quanto non lo fosse in passato. A questa azione è corrisposta una reazione, che è stata allo stesso tempo mediatica e politica. Gli organi di informazione hanno offerto all?intolleranza sociale un palcoscenico sempre più ampio.
Vita: E la politica?
Margara: Sul binario parallelo la politica ha riconosciuto nell?intolleranza sociale un formidabile trampolino di lancio per aumentare la propria raccolta di consenso. In altre parole il potere politico ha rifiutato il compito di indirizzare lo sviluppo della società e ha incominciato a subire in modo irrazionale le angosce dei cittadini. Molte di queste paure discendono direttamente dal timore verso l?ignoto, verso chi non è come te, come non lo sono i senegalesi o i tossici.
Vita: Ritiene che la commissione di una pena sia necessaria alla giustizia?
Margara: Un sistema giudiziario si deve necessariamente interessare delle trasgressioni e quindi le deve sanzionare. La pena però non è la bacchetta magica che abbatte ogni ostacolo sociale. In questo caso, infatti, la giustizia si imballa, come è avvenuto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e come sta avvenendo qui da noi.
Vita: Questo meccanismo quali effetti produce?
Margara: Il risultato finale è che la giustizia genera ingiustizia. Mi spiego. Abbiamo detto che la pena ormai è concepita come barriera alle turbative sociali. Bisogna allora chiedersi chi sono i ?turbatori? sociali. La risposta a questo interrogativo può essere desunta dalle ricerche di mercato delle assicurazioni: le aree sociali più a rischio sono quelle non garantite. La giustizia oggi sovrappone l?area della punizione con l?area della precarietà. Questo è di fatto un corto circuito: se la società ghettizza gli emarginati, questi saranno sempre più emarginati e sempre più precari.
Vita: Pena e detenzione sono sinonimi?
Margara: Tutti i tecnici concordano sul fatto che la pena detentiva deve costituire l?estremo rimedio, l?estrema ratio. Un principio che, d?altra parte, sta scritto nell?ordinamento penale. La detenzione infatti comporta il massimo grado di esclusione sociale, tarpa ogni possibilità di relazione. Credo che per i reati di piccola gravità, che sono i più frequenti, bisognerebbe fare meno ricorso a questa modalità di pena e affidarsi maggiormente a sanzioni di carattere inibitorio e a contenuto riparatorio. Come accade in ambito sportivo, con l?allontanamento dagli stadi dei tifosi più facinorosi.
Vita: Nell?immaginario comune però se non c?è reclusione, non c?è pena?
Margara: è vero. La richiesta sociale è la pena detentiva, l?emarginazione e l?esclusione. Proprio qui si rivela il pericolo di approcciare in modo strumentale le pulsioni sociali che vogliono l?allontanamento del diverso e del rompiscatole. In realtà la cosiddetta criminalità di strada manca di fondamenta organizzative ed è solamente un modo per tirare a campare. Un modo che dà noia, a cui quindi si risponde con l?emarginazione della persona. Così la semilibertà sembra che non sia pena.
Vita: Lei è stato magistrato. Quanto è eccitante condannare una persona?
Margara: L?ebbrezza da onnipotenza è un rischio professionale. Non dovrebbe accadere, ma esiste il pericolo di godere nell?incidere pesantemente sulle vite individuali.
Vita: Com?è vissuta la pena da chi la subisce?
Margara: La produzione di una riflessione sul reato commesso è l?unica via, non dico per il pentimento, ma almeno per la razionalizzazione della reazione che la società ha nei confronti delle condotte criminali. In Italia questo non accade. Anche se il nostro ordinamento prevede il trattamento del detenuto, nei fatti il carcere tende a troncare il dialogo con le persone. Chi si trova a subire una pena non riesce a comprenderne il senso. Tant?è che uno degli effetti ordinari che produce la detenzione è il vittimismo. Da provocatore del danno, la persona si concepisce come vittima della società.
Vita: Non è un po? troppo facile?
Margara: È ovvio che quando i detenuti dicono «io non c?entro» mentono, ma dietro questa bugia si cela il reale autoconvincimento di essere innocenti. è un guaio: la pena produce innocenza e quindi il detenuto non riconosce la necessità di un percorso di reinserimento.
Vita: In italiano pena significa sia punizione che dolore. Lei ritiene che il dolore debba essere parte della pena?
Margara: La pena per definizione è penosa. Ma la penosità non deve essere il fine della pena. Molti miei colleghi purtroppo non lo capiscono. L?obiettivo è mettere il detenuto nelle condizioni di non nuocere alla collettività. Si ritorna al punto di partenza: la cruciale importanza del trattamento e del reinserimento. È su questo versante che si misura l?efficacia di un sistema penale.
Vita: Dalla prospettiva delle vittime, non le sembra che la pena debba avere anche un valore risarcitorio?
Margara: Vale la pena precisare che non tutti i reati produco danni, e quando lo fanno l?ordinamento già di per sé prevede il risarcimento, almeno fin dove è possibile. L?obiettivo finale della pena resta comunque la riabilitazione della persona, e invece si sta facendo sempre più largo una concezione riparativa della pena e si è sempre più indifferenti alla qualità della persona che esce dal carcere. Il risultato è conseguente e paradossale allo stesso tempo: diminuisce il grado di sicurezza della società.
Vita: In questa ottica che senso ha il ?fine pena mai??
Margara: La Corte costituzionale ha ormai definitivamente riconosciuto la costituzionalità dell?ergastolo. Lo ha fatto, però, in modo contraddittorio. Da una parte, infatti, si sostiene che per reati di estrema gravità è necessaria una pena altrettanto grave. Dall?altra però si favoriscono le pratiche di revisione del ?fine pena mai? attraverso le liberazioni anticipate. Di fatto, quindi, l?ergastolo, sempre secondo la Consulta, deve costituire più una minaccia sulla carta che non una pena reale.
Chi è Alessandro Margara
Magistrato anti sbarre
Alessandro Margara è nato a Massa nel 1930. È magistrato dal 1958 e da trent?anni lavora in maniera specifica sul carcere e le sue problematiche. è stato presidente del tribunale di sorveglianza e magistrato di sorveglianza a Firenze dal 1986 al 1997, quando è stato nominato capo del Dipartimento dell?amministrazione penitenziaria. Alla fine degli anni 80 ha partecipato alla commissione per i rapporti fra il ministero di Grazia e giustizia e le Regioni, e fra il ministero e il Csm. Dal 2002 presiede la Fondazione Michelucci di Fiesole.
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