Traiettorie urbane
Leoncavallo, lo sgombero che interroga l’anima di Milano
Per qualcuno è la restituzione di un edificio ai suoi legittimi proprietari, per altri è il rischio di perdere identità culturale e sociale in una Milano dai connotati sempre più sbiaditi. La vicenda dello sfratto del centro sociale apre una riflessione sul futuro della città. Valeria Verdolini, sociologa e ricercatrice, presidente di Antigone Lombardia: «Al presidio io c'ero: ho pensato che fosse importante esprimere sostegno e solidarietà non soltanto per lo spazio in sé ma per l’idea di città che rappresenta»

Al motto di “Giù le mani da Milano”, il centro sociale Leoncavallo ha annunciato ieri sera un corteo nazionale. Si svolgerà sabato 6 settembre ed è una prima risposta allo sgombero che ieri mattina ha svegliato bruscamente il capoluogo lombardo. Lo spazio pubblico autogestito di via Watteau ha una lunga storia alle spalle fatta di militanza e sperimentazione culturale, integrazione di mondi diversi e opportunità di fruizione accessibile e spesso gratuita (l’ha raccontata ieri in un’intervista a VITA il fondatore di CheFare Bertram Niessen).
Musicisti, artisti, attivisti e semplici cittadini: sono tante le persone che in queste ore esprimono un trasporto e un senso di appartenenza a quel luogo. Si legge nei post che si rincorrono sui Social e si evince dalle immagini della piccola folla che nella giornata di ieri si è radunata di fronte al portone del centro sociale. Valeria Verdolini, sociologa e ricercatrice, presidente di Antigone Lombardia, ieri mattina era nella sua casa di Milano quando ha letto un post di Radio Popolare sullo sgombero in atto. È uscita di casa e ha raggiunto il Leoncavallo.
Perché?
A Milano il 21 agosto non c’è moltissima gente. Io c’ero, e così ho pensato che fosse importante esprimere sostegno e solidarietà non soltanto per lo spazio in sé ma per l’idea di città che rappresenta.

Ci aiuta a definirla?
È la città in cui sono cresciuta. Sono arrivata a Milano nel 2008, avevo poco più di 20 anni e il primo concerto a cui ho assistito è stato proprio al Leoncavallo, con la musicista tedesca Ellen Allien. Ci sono ritornata più volte per varie ragioni. Un pezzo di geografia urbana nato come ambiente politico e underground, poi trasformatosi nel tempo come accade a luoghi dalla storia così lunga: difficile immaginarli immobili nella loro identità. Una delle cose che mi hanno sempre colpito del Leoncavallo è la trasversalità dei mondi che lo attraversano. Un aspetto che è stato evidente anche ieri al presidio: in questi spazi trovano un loro stare anche pezzi della sofferenza della città che altrove non troverebbero dimora. È un’idea di città che si sta facendo sempre più rarefatta e che proprio in virtù di questo è interessante difendere.
È un momento difficile per la città, ma è anche un tempo per provare a ripensarla, magari a partire da un’idea di socialità accessibile e orizzontale
Valeria Verdolini, sociologa e ricercatrice
È uscito a giugno per i tipi di Ombre corte il libro che ha scritto insieme a Paolo Grassi e Giacomo Pozzi, intitolato Milano fantasma. Etnografie di una città e delle sue infestazioni. Per realizzarlo, avete intercettato le traiettorie di chi la abita e la attraversa nel quotidiano. Qual è il ruolo oggi di un centro sociale in una città dal respiro europeo come Milano?
Innanzitutto, generativo: l’informalità degli spazi permette di uscire dai vincoli economici e di pensiero che una capitale europea si porta dentro. È una zona grigia per sua natura ibrida e orizzontale, e dunque difficilmente riproducibile in altri luoghi più istituzionalizzati. Si tratta di una forma di democrazia culturale che assume valore anche nel rendere accessibile a tutte e a tutti una socialità che non sia per forza di consumo e di costo.
L’appello del Leoncavallo per costruire una “Cassa di Resistenza” così come l’invito a partecipare alla manifestazione del 6 settembre fanno riferimento a «tante e tanti abitanti che credono che un’altra Milano sia possibile». Secondo lei, verso quale idea di città dovrebbe tendere Milano?
Io partirei dal fatto che non esiste né mai è esistita una sola Milano. Così come non credo nel “modello Milano”, è difficile pensare che esista una sola città in un centro dotato di una tale entità di numeri, storia e composizione sociale. Abbiamo però assistito a uno schiacciamento di alcune modalità di declinare Milano rispetto ad altre, dovuto ora alla capacità di sopravvivenza di alcune parti ora alla spinta espulsiva di altre, ora alle trasformazioni globali. Credo che la lezione di questa vicenda stia nella consapevolezza che non dobbiamo perdere quei pezzi di Milano che oggi rischiano di scomparire, ma anzi metterli in dialogo tra di loro. Sicuramente questo è mancato negli ultimi anni, le varie Milano si parlano sempre meno.
Che cosa ci insegna questa mobilitazione collettiva e intergenerazionale?
È il senso collettivo di qualcosa che è bene comune. È presto per dirlo, ma forse, sotto il torpore che abbiamo vissuto negli ultimi anni complice anche l’impatto deflagrante della pandemia, c’è un filo di relazioni che non si è spezzato.
Nel numero che VITA ha dedicato a Milano, alla domanda su quali soluzioni adottare per sanare le divisioni e le disuguaglianze di una città esclusiva ed escludente, lei aveva risposto così: «Le fasce più fragili sono già state espulse tutte, adesso anche la fascia media sta subendo la stessa sorte. Siamo vicinissimi al punto di rottura, la questione vera è se riusciremo o meno a mettere a valore questa rottura». Anche lo sgombero del Leoncavallo può rappresentare una frattura da mettere a valore?
Gli ultimi mesi, in modo diverso, ci hanno messo di fronte all’insostenibilità di alcune contraddizioni delle varie città esistenti dentro una sola Milano. Dalla giornata di ieri è emerso però il desiderio di non darla per perduta, di riprendersi una città che è stata tante cose e tante altre può ancora essere. Penso agli sgomberi che Milano ha vissuto intorno al 2010: anni difficili e di forte polarizzazione, che però hanno gettato le basi di una stagione trasformativa dal punto di vista culturale. È un momento difficile per la città, ma è anche un tempo per provare a ripensarla e a dare vita a una nuova Milano ancora, magari a partire da un’idea di città per tutte e tutti.
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In apertura, il corteo di ieri pomeriggio a Milano dopo l’assemblea pubblica degli attivisti in seguito allo sgombero del centro sociale Leoncavallo (foto Stefano Porta / LaPresse)
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