Non profit

L’identità non sia un feticcio.Così decolla l’impresa sociale

economia civile Con Raoul Nacamulli nel cantiere della nuova imprenditoria

di Redazione

«Governare e gestire l’impresa sociale è il titolo scelto per la sesta edizione del workshop nazionale organizzato da Iris Network. È un tema legato a questioni puntuali e concrete che, in effetti, verranno affrontate in otto diverse sessioni tematiche. Prima però di discutere di statuti e regolamenti, gestione delle risorse umane e formazione del management, stakeholder e reti d’impresa è importante mettere in luce i fondamenti organizzativi e gestionali di una struttura così peculiare come l’impresa sociale. Ne abbiamo parlato con Raoul Nacamulli dell’università di Milano Bicocca, uno dei massimi esperti di organizzazione aziendale a livello nazionale.
Vita: Cominciamo dalla questione chiave: proviamo a definire l’identità dell’impresa sociale.
Raoul Nacamulli: Le imprese sociali costituiscono una risposta all’inadeguatezza delle modalità tradizionali di “fare del bene”. E questo mentre la società pone sfide nuove legate ai mutati orientamenti verso la diversità, all’allungamento della vita media e soprattutto alla crisi dei sistemi di welfare tradizionali che si sono rivelati troppo costosi ed inadeguati, specie nell’area dei servizi ad alta intensità relazionale. L’origine e la missione delle imprese sociali fa sì che esse si richiamino ad una identità organizzativa particolare che mette in risalto il desiderio di una maggiore partecipazione alle decisioni, un più forte legame con il territorio, una maggiore domanda di equità fra sforzo erogato e ricompense totali (non solo monetarie) erogate.
Vita: Da un lato c’è chi sostiene una progressiva assimilazione di queste imprese ai modelli organizzativi tipici delle imprese for profit. Dall’altro c’è invece chi afferma che hanno saputo definire un proprio specifico modello. Qual è il suo giudizio?
Nacamulli: Le imprese sociali, a causa dell’importanza che esse attribuiscono alla propria identità organizzativa, possono soffrire più di altri di quella che io chiamo “sindrome appiccicosità-flessibilità”. Mi spiego: da un lato c’è il modello culturale delle origini (appiccicosità), dall’altro l’omologazione /allineamento al modo di operare gestionale ed organizzativo delle imprese “best performer” presenti nell’arena competitiva (flessibilità). L’unico modo che consente di superare, in maniera costruttiva, questa maniera di vedere le cose è lo sviluppo di un modello di pianificazione strategica “inside out”. Cioè un modello capace di collegare efficacemente le risorse presenti nell’impresa sociale a quelle del suo ambiente per sviluppare una visione strategica plausibile. In questa prospettiva l’identità organizzativa cessa di essere una sorta di “feticcio” o una “gabbia di ferro” per divenire un vero e proprio patrimonio intangibile di investimenti relazionali che debbono essere di continuo re-interpretati per delineare percorsi di sviluppo originali.
Vita: E come ci si arriva?
Nacamulli: Bisogna istituzionalizzare un processo di pianificazione strategica che comporti la definizione di linee di sviluppo. Queste linee di sviluppo fanno riferimento sia ad un modello sociale al quale agganciare obiettivi e programmi sia ad una visione economico-competitiva collegata all’analisi dei bisogni dei clienti ed al comportamento dei concorrenti.
Vita: Sono possibili percorsi di apprendimento reciproco fra imprese non profit e imprese tradizionali?
Nacamulli: Certo che sì. Molte imprese sociali stanno vivendo oggi una sorta di “crisi di crescita” legata per un verso all’incremento di dimensione e per un altro verso all’esigenza di maggiore efficienza nell’impiego delle risorse e alle spinte di competitività. In questo contesto le imprese sociali debbono imparare un gioco nuovo con un nuovo insieme di regole su come l’organizzazione funziona internamente e su come essa si relaziona con l’ambiente esterno. Questo richiama nel contempo sia bisogni d’imprenditorialità che esigenze di controllo. In questo contesto il mondo delle imprese private può costituire un utile punto di riferimento. D’altra parte anche le imprese sociali possono costituire una fonte di apprendimento per le imprese sia di servizi che industriali private. Infatti, nelle imprese sociali, l’identità organizzativa è un “fattore distintivo forte” e questo si collega naturalmente alla formazione di “competenze soft”, distintive sia nell’area delle imprese di servizio che nell’industria.
Vita: Quale ruolo può giocare il management per sostenere percorsi di sviluppo e cambiamento organizzativo nelle imprese sociali?
Nacamulli: C’è un rischio di “presbiopia” ovvero quello di non riuscire a vedere le caratteristiche specifiche di questo settore. E c’è un rischio di “miopia” ovvero di rimanere intrappolati in stili di management inadeguati e provinciali, di seconda o terza mano, importati dal mondo delle imprese private. Il leader delle imprese sociali appare mediamente, nella prospettiva del potere, un attore più debole di quello delle aziende private. Malgrado questo, egli deve essere capace di portare a compimento processi decisionali complessi e deve fare questo costruendo il consenso attraverso processi d’inclusione di differenti attori collocati, spesso in maniera frammentata, sia dentro che al di fuori dei confini dell’organizzazione. Il management delle imprese sociali deve essere quindi un negoziatore integrativo che faccia riferimento sia a criteri “oggettivi” che a consuetudini socialmente riconosciute.

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