Non profit

L’impetuosa crescita dell’economia-specchio finisce sotto la lente del Fisco

di Redazione

Tre anni di recessione per il gigante americano, di dissesti finanziari e di riemersione dello spettro della disoccupazione. Un triennio di conti in rosso, a cominciare da quelli pubblici, perennemente a rischio deficit, fino ai bilanci delle società quotate che governano gli umori di Wall Street, come a dire, del Pianeta. In assoluta controtendenza, il non profit: un settore che non soltanto continua a crescere ma s’impenna, mette le ali e centra una vetta monetaria difficile da spiegare anche dai tecnici, dagli esperti e dagli economisti dell’Agenzia delle entrate statunitense.
Da quelle parti si chiama Irs (Internal Revenue Service) e da almeno un decennio ha elevato la soglia d’attenzione su questo angolo di società americana, quello delle donazioni, dell’impegno civile e della generosità nel giving (che oramai coinvolge una quota maggioritaria dei contribuenti, sia persone fisiche che imprese).

Il peso dei numeri
Nel dettaglio, i numeri che hanno fatto sobbalzare di recente i responsabili del fisco federale di Washington, che monitorano costantemente il variegato universo del non profit attraverso una task force speciale, riguardano vari aspetti. Innanzitutto la consistenza dei patrimoni, all’incirca 2.500 miliardi di dollari, ad oggi riconducibili alle associazioni che beneficiano di larghe esenzioni fiscali.
Poi la crescita inarrestabile di quello che un tempo si etichettava come terzo settore e che oggi è apertamente appellato come “economia”, con un tasso di corsa annuale del 5% a partire dal 2000. Per finire il bacino oramai sconfinato degli enti che vi alloggiano attratti come da una calamita: 350mila. Troppi e, soprattutto, un fatto inspiegabile in coincidenza con un periodo storico governato dalla latitanza dei trasferimenti monetari e dei flussi in uscita.
Eppure, l’economia del non profit non solo corre, assorbendo capitali significativi senza sosta, ma vede anche convergere all’interno dei suoi modelli normativi grandi multinazionali, banche, assicurazioni, secondo modalità dirette e non più lasciate alla mediazione delle fondazioni, dei circoli e dei club. In pratica, almeno secondo quanto emerge dalle conclusioni sottoscritte dall’amministrazione finanziaria statunitense e trasmesse al Congresso, è come se il non profit stesse rigenerando una sorta di economia parallela specchio di quella reale.
Si tratterebbe dell’effetto indotto dalla colonizzazione del territorio dell’associazionismo civile condotta dal cuore del capitale Usa, con il risultato che oggi è sempre più facile imbattersi in un ente non profit al contempo attivo, e largamente partecipativo, secondo schemi propri del business as usual.

Ricavi da urlo
I ricavi osservati concentrarsi sull’economia del free giving sono diventati un tesoro stimabile, dai detective del fisco, in 1.400 miliardi di dollari. Moneta sonante, sotto l’impulso di flussi continui di trasferimenti di capitali provenienti da ogni angolo del Paese, dai bilanci delle famiglie medie come da quelli, più ricchi di zeri, dei grandi gruppi imprenditoriali, senza più confini.
Di questi fondi, una parte consistente proviene da vere e proprie attività commerciali, quindi una forma, sia pur lieve, di tassazione deve comunque sopportarla e rendicontarla. Comunque, si tratta d’un peso talmente soft che generalmente non supera i 15 miliardi di dollari l’anno.
La contraddizione stridente tra l’andamento dell’economia del Paese e l’economia-specchio del non profit è evidente. I ricavi delle società, delle multinazionali, come i redditi dei contribuenti, sono in discesa. Al contrario, i flussi in ingresso a beneficio del non profit volano, come se una quota sostanziosa dell’economia reale stesse progressivamente ammonticchiando scorte preziose di moneta liquida sotto l’ombrello protettivo del zero-tax rate garantito, a certe condizioni, per il mondo della solidarietà.

Al top della giving-economy
Harvard, Yale, Stanford, Princeton, il Mit di Boston e così via. Sono i vertici del non profit Usa con patrimoni, rispettivamente, pari a 44, 23, 22, 16 e 13 miliardi di dollari. A seguire, sempre nella top ten del giving compaiono ospedali, centri di cura, cliniche e istituti di ricerca. Quest’ultimi generalmente sostenuti da fondazioni.
Al fianco di queste istituzioni storiche del non profit, in realtà impegnate anche in vari settori del business, compaiono associazioni ed enti diretta emanazioni di banche, per esempio la Bank of America, di società finanziarie, tutte le società di rating, per restare in tema, sono ben rappresentate, e di assicurazioni.
Il risultato è che anche il numero degli occupati cresce, assieme a quello di stipendi e salari che promanano dal settore. Somme di denaro ingenti, per le quali la zero-tax è parzialmente sospesa, col risultato che mentre per l’imposta sui profitti i fondi destinati alle entrate fiscali non superano i 15 miliardi di euro l’anno, in riferimento all’imposta sui redditi delle persone fisiche questo numero tende a moltiplicarsi, pur rimanendo sotto la soglia ordinaria.
Per comprendere l’importanza strategica del non profit è sufficiente osservare come nel triennio passato sia stato capace di sottrarre dall’economia reale, nonostante la crisi, oltre mille miliardi di dollari rispetto ai quali sono scattate deduzioni fiscali di pari importo e, soprattutto, di effetto immediato sul versante delle entrate fiscali.
Un tesoro che s’è innestato su di un tessuto formalmente chiuso al doing business ma apertamente attivo nel cuore dell’economia Usa. Tant’è vero che nel corso dell’ultimo anno monitorato dal fisco Usa, le spese targate non profit che si sono reinserite nell’economia reale sono state pari a 1.300 miliardi di dollari. Insomma, una preziosa àncora di sostegno all’economia.

Stretta sui controlli
È da queste osservazioni statistiche, e dal rischio che comportano, che da alcune settimane l’Agenzia delle entrate Usa ha deciso di avviare uno stretto programma di controllo.
Due i settori coinvolti: innanzitutto, sul versante della trasparenza è stato elaborato un database ad hoc che consente, con pochi click, di definire il profilo fiscal-finanziario d’ogni singola associazione, o ente, attivo nel mare del non profit Usa. Una sorta di Atlante del giving made in Usa, costantemente monitorato e aggiornato sotto la lente del fisco.
Al contempo, sul lato dei controlli fiscali, e delle verifiche, le attività sono pressoché raddoppiate. Per intenderci, nel corso del biennio passato, oltre 30mila realtà del non profit sono state messe sotto la luce del fisco americano, rendicontando l’ingresso e l’uscita d’ogni singolo dollaro dalla A alla Z.
Un impegno spropositato che ha spinto la stessa Casa Bianca a spingere per un aumento significativo del budget nella disponibilità dell’Agenzia delle entrate, cresciuto di quasi un miliardo di dollari dal 2010 ad oggi. Insomma, in futuro s’assisterà ad una duplicazione dell’amministrazione finanziaria, conseguente al duplicarsi dell’economia statunitense che già oggi presenta un livello reale sotto il quale emerge un secondo livello, una sorta di economia-specchio, che fa riferimento al non profit per radici storico-culturali, e che risulta sempre più connessa al mondo del business.
Dunque, obiettivo dell’Agenzia delle entrate Usa è provvedere a dotarsi d’un braccio operativo capace, in parallelo con quello ordinario, di intercettare i flussi, le dinamiche e le criticità che da questo boom inatteso potrebbero sorgere in futuro.

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