Non profit

L’incontro fra settori “deboli” che ha generato un modello virtuoso

L'intervento dell'economista dell'università della Tuscia

di Redazione

Può apparire a prima vista paradossale che due ambiti della società quali il mondo agricolo e quello del sociale, generalmente ritenuti “deboli” e che sono da tempo sotto pressione per la crisi fiscale dello Stato, abbiano saputo intrecciarsi e combinarsi nelle pratiche di agricoltura sociale generando circuiti economici virtuosi, spesso robusti e dinamici. Se in matematica, per convenzione, l’incontro tra due segni negativi può generarne uno positivo, nell’economia reale in genere si ritiene che ciò difficilmente possa verificarsi.
Una chiave di lettura per cercare di comprendere come le esperienze di agricoltura sociale riescano a costruire pratiche economicamente sostenibili è quella della cosiddetta multifunzionalità dell’agricoltura. Un’espressione che a partire dagli anni 90 è diventata uno dei paradigmi per interpretare in modo nuovo il ruolo plurimo e le molteplici funzioni che le campagne, e le attività agricole in particolare, andavano esplicando nei confronti della società nel suo insieme. A pensarci bene una “funzione” indica un ruolo, un compito di qualcosa per qualcos’altro, o di qualcuno per qualcun altro. In altri termini una funzione lega sempre due o più entità distinte e le mette in relazione. Un’impresa agricola multifunzionale è dunque anche multirelazionale, ovvero fa della costruzione di relazioni, di incontri e di legami, sviluppati prevalentemente all’interno del territorio dove è situata, un punto di forza anche economico.
Così, per fare riferimenti più concreti, le progettualità di agricoltura sociale trovano un naturale incontro con quei comportamenti improntati al consumo responsabile che si vanno diffondendo tra le famiglie e i cittadini e che si esplicano nel nuove forme di acquisizione del cibo che privilegiano le filiere corte, i prodotti locali, i gruppi di acquisto, i mercati contadini, tutti fenomeni sui quali Vita si è spesso interessata. Ritroviamo in questi comportamenti la ricerca, sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta di cibo, di valorizzare l’atto dello scambio vivendolo come un incontro di persone che riesca ad aggiungere valore ai beni scambiati, aldilà delle loro caratteristiche organolettiche. Stando con modalità originali nel sistema di produzione e scambio del cibo si riesce a mettere a valore, anche strettamente economico, la qualità sociale dei processi che a quel cibo hanno condotto. L’agricoltura sociale diventa così una modalità per costruire una reputazione di impresa basata sulla fiducia, sulla responsabilità e sulla reciprocità che attribuisce all’impresa un ruolo di “cittadina attiva” della comunità che la comunità stessa, attraverso gli individui e i soggetti collettivi che la compongono, riconoscono come tale e sostengono con le loro decisioni di acquisto. Non vi è dubbio che per cogliere e comprendere a fondo le particolari modalità dell’organizzazione economica delle esperienze attive in agricoltura sociale sia necessario un diverso sguardo sulla realtà, che si nutra di un pensiero economico nuovo quale, ad esempio, quello delineato dai principi dell’economia civile riportati all’attenzione della comunità scientifica e non solo da Luigino Bruni, Stefano Zamagni e altri. Con questo sguardo l’agricoltura sociale appare come uno straordinario laboratorio di pratiche di economia civile, rappresentato da un originale e complesso mosaico nel quale imprese agricole private, cooperative sociali e organizzazioni del terzo settore, soggetti pubblici locali, cittadini (più co-produttori che consumatori) e persone fragili e a rischio di esclusione sociale, collaborano fianco a fianco per costruire le condizioni di sostenibilità economica del proprio comune agire.

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