Sgambetta nel girello e ride allegro mostrando i suoi cinque denti. Si lancia confidente tra le braccia degli sconosciuti e inizia a saltellare senza mai stancarsi. Jamal, nove mesi per nove chili, è l’unico ad essere felice nella casa di Adel, a Shok, periferia nord della Tripoli libanese. Non ricorda di aver dovuto cambiare sei volte l’auto per arrivare dalla Siria al Libano nel viaggio che dalla martoriata Homs ha portato i suoi genitori, gli zii e i nonni al riparo. E neanche che metà dei parenti è rimasta in Siria, fermata al check point e rispedita indietro senza motivo. Jamal ha evidentemente conservato lo spirito autentico di Homs, una città che prima delle rivolte contro il presidente siriano Bashar al Assad, era nota per la ingenua bontà dei suoi abitanti, tanto da essere oggetto di barzellette.
«Veniamo dallo storico quartiere di Bab Sibah», spiega Abdelilah Ikhuan, capo famiglia, sunnita, che non chiede di celare il suo vero nome. Una sorprendente eccezione tra i profughi siriani: la paura di ritorsioni per ciò che si dice, solitamente è totale. Il signor Abdelilah però è un esule eccellente che si definisce «vittima dell’ironia della sorte».
Due mesi da incubo
Ragioniere di mestiere ed educatore per vocazione, l’uomo lavorava nella “al Bashaher”, una organizzazione che in Siria si occupa di assistere i profughi iracheni. «Da protettore dei rifugiati a profugo», dice sorridendo con rassegnazione. La fuga per lui si è resa necessaria quando ha capito che «l’unico modo per tenere mio figlio lontano dai guai era portarlo via».
Maher, il suo terzogenito, a soli 16 anni ha già conosciuto il carcere e la tortura. Ha occhi felini di un verde chiaro come tutti i componenti della famiglia, accumunati anche dalla carnagione lattea e i tratti gentili. Racconta, ormai con un certo distacco emotivo, di quando ad agosto lo hanno infilato in una macchina «uomini del Mukabarat», i servizi segreti, e lo hanno portato in cella. «Stavo partecipando a una manifestazione nella piazza dell’Orologio e filmavo col telefonino. D’un tratto sono spuntati tre uomini dalla folla, erano vestiti in borghese e mi hanno trascinato fino alla loro auto». «In prigione», continua, «ho scoperto che c’erano anche sei dei miei amici con cui eravamo scesi in strada. Ci hanno interrogato singolarmente per chiedere un elenco di tutte le persone che conoscevamo. Tutte. Non solo quelle che partecipano alle manifestazioni».
Maher ha passato due mesi in un carcere comune, e non minorile, dove racconta di essere stato percosso puntualmente con i taser, i manganelli che scaricano potenti scosse elettriche. Una mattina un suo amico, indebolito anche dai troppi giorni passati senza bere e mangiare, è morto. «Ho capito che dovevo fare tutto quello che mi dicevano le guardie carcerarie e andarmene. Come prima cosa ho dato la lista delle persone che conoscevo. Poi ho ammesso di essere armato anche se non era vero e di manifestare sotto effetto delle droghe di al Jazeera». Quella rivolta alla tv qatarina è un’accusa che la televisione di Stato siriana ha sostenuto anche attraverso un servizio, mandato in onda ad aprile scorso, in cui vengono mostrate le immagini di un maxisequestro di pasticche allucinogene in buste trasparenti con il logo del noto network. Da Doha è arrivata la smentita.
Il giorno in cui Maher è stato rilasciato a fine settembre, prima di uscire dal carcere, ha dovuto «fare il saluto militare davanti alla foto del presidente». Una volta fuori il padre lo ha obbligato a non andare più alle manifestazioni, mentre lui continuava ad assistere i concittadini colpiti dai bombardamenti nei vari quartieri presi di mira a rotazione dall’esercito. «L’ultima offensiva è quella di marzo, ma il primo assedio c’è stato a maggio scorso».
Immagini dell’orrore
Abdilillah tra le mani stringe un dossier da lui redatto con foto di strade senza più asfalto e pozzanghere di fango miste a sangue. Ospedali improvvisati negli scantinati delle case, dove per garantire un minimo di igiene si foderano le pareti con la plastica e gli aghi vengono sterilizzati con grandi vampate di fuoco. Ci fa vedere anche immagini di palazzine sventrate con frammenti di vita quotidiana in salotti senza più pareti esterne. Poi corpi esanimi sfregiati e non riconoscibili.
È da tutto questo che sono fuggiti gli oltre 7mila profughi siriani che si trovano attualmente in Libano. Il dato ufficiale è dell’Unhcr, l’Alto commissario Onu per i rifugiati, che calcola solo le persone registrate, ma si stima che i clandestini siano almeno il doppio. A ricevere assistenza diretta dalle grandi ong internazionali (Unhcr, Save the Children, Medici senza frontiere e altre) sono i 2mila che si trovano a Wadi Khaled, un villaggio molto povero nel Nord-Est del Libano. Per il resto le famiglie preferiscono pagare affitti in monolocali dove dormono anche in 25 persone, o ricevere ospitalità dai parenti.
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