Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera ha scritto un fondo sul fenomeno di «un’Italia anticristiana» dove parla dell’atteggiamento di condanna per tutto ciò che rappresenta il passato, l’antico, la tradizione. «Eccezion fatta», annota, «per l’enogastronomia, la sola tradizione in cui gli italiani oggi si riconoscono realmente». Ora, evidentemente è ben poca cosa se l’unico elemento riconosciuto della tradizione, nella società odierna, rimane l’enogastronomia, che tuttavia è uno degli elementi che ci richiamano a qualcosa. In realtà questo riconoscersi attorno al gusto ha qualcosa di culturalmente valido, soprattutto quando il gusto è legato a un ordine, ossia ai prodotti che a ogni stagione arrivano sulle nostre tavole, quasi a raccontarci la dinamica di un dono. Eppure anche questo dato elementare viene spezzettato dai filosofi di turno che, addirittura, preferiscono dubitare che ci sia un ordine. Così la dinamica dell’universo, la sorpresa della primavera, il tempo che cadenza la nostra vita, sono posti sul fronte dell’opinabile e del relativo, come sembrano essere tutte le certezze ereditate dal passato.
Ma c’è qualcosa che non convince in tutto questo, ancor più quando ti sorprende una giornata di sole, quando sullo sfondo si svela la bellezza delle montagne o quando in tavola arriva qualcosa che ha a che fare con la forza della natura. Sono dettagli, tuttavia capaci di irrompere nella nostra vita prima d’essere censurati da un ragionamento, prima che ci si accodi nella mentalità che non c’è una cosa giusta, buona, bella. Chi ha dei figli sa che i giovani di oggi sono cresciuti in una mentalità così. E ti sfidano. Ed è una bella sfida se qualcuno conserva un cuore semplice e si fa colpire da questa bellezza che sta dentro a un uovo fresco o a un pane appena sfornato. Possono dire nulla (sono cibi che vanno consumati), o possono dire tutto (sono la cifra della nostra origine: siamo per fatti per quella felicità).
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