Famiglia
Mal d’affido
Minori /Minori. Si va verso la proroga alla chiusura degli istituti prevista per fine 2006. Una decisione che nasconde un grande problema...
di Redazione
La doccia fredda risale a qualche giorno fa, quando il sottosegretario alla Solidarietà sociale, Cecilia Donaggio ha annunciato: potrebbe essere necessaria una proroga alla chiusura degli orfanotrofi, prevista per la fine di quest?anno dalla legge 149 del 2001.
Nulla è ancora deciso in modo definitivo. Servono indagini supplementari, e la decisione defintiva è rinviata alla conferenza Stato-Regioni di mercoledì 13 settembre. Ma non vi è dubbio che il semplice annuncio stia preoccupando quanti si accingevano a festeggiare la messa in pensione degli istituti.
«Mi auguro proprio che non ci siano proroghe», dice a Vita Luigi Fadiga, già presidente della Sezione Minorenni della Corte di appello di Roma. «Non è giusto che i bambini paghino un?inerzia durata un lustro». «La scelta di rinviare è forse motivata da mancanza di fondi o di organizzazione», afferma dal canto suo Marina D?Amato, presidente del Centro nazionale di documentazione e analisi per l?infanzia e l?adolescenza, «ma non vorremmo ledesse la vita di coloro che, non votando, appaiono troppo spesso cittadini di secondo grado».
Una politica fallita
A onor del vero, qualcosa in questi anni si è mosso. Stando ai dati diffusi dal Centro nazionale, la proroga riguarda una piccola parte dei minori fuori della famiglia di origine, che in Italia sono circa 34mila. Di questi 14mila sono in affido, circa 20mila vivono nei presidi residenziali (ne esistono di diversi tipi); poco più di mille sono in istituto. Attualmente sono in attività circa 120 orfanotrofi; nel 2003 ne risultavano aperti 215.
Qualcosa si è mosso, certo. Ma a conti fatti la soluzione dell?affidamento riguarda solo un terzo dei minori. Troppo pochi, secondo molti che interpretano l?annuncio della Donaggio come una dichiarazione di sconfitta: la politica dell?affido, che pure si era presentata come una svolta anche culturale, non è riuscita. O almeno non ha dato i risultati auspicati.
«In Inghilterra, il 68% dei minori fuori dalla famiglia è in affidamento familiare. Da noi siamo ben lontani da questa percentuale», ricorda Fadiga. Che aggiunge: «Ma la verità è che tutta la legge è rimasta paralizzata. L?affido è un intervento tecnico molto bello ma complesso, che richiede amministrazioni locali capaci e decise ad attuarlo. È molto più semplice ricoverare un bambino in istituto: basta una firma».
Al contrario, spiega D?Amato, l?affido «presuppone adulti che si mettono in relazione ai bambini per farli crescere e non per possederli», ed è anche per questo che tale percorso è estremamente complesso: richiede investimenti, risorse, professionalità, necessita soprattutto di una rete di accompagnamento efficiente che sappia valorizzare la disponibilità degli eventuali affidatari e al tempo stesso tenga sempre presente che, come ricorda Fadiga, «l?affidamento è un ponte per permettere al bambino di rientrare nella sua famiglia di origine».
Dove sbagliano i Comuni
Non a caso, in questi anni, è cresciuto il contributo del privato sociale che ha svolto un ruolo da tutti definito significativo, spesso accompagnando tramite percorsi formativi le famiglie disponibili, mettendole in rete, creando le premesse per una vera accoglienza. Non sono mancati però i problemi. «Dove non c?è una sinergia positiva fra l?ente locale e il mondo delle associazioni», afferma Marco Griffini, presidente di Aibi, «non si riesce ad ottenere risultati confortanti». Dello stesso avviso Tiziana Camera, responsabile affidi di Famiglie per l?accoglienza: «A Milano, per esempio, il Comune privilegia il collocamento in comunità; l?affido rappresenta una soluzione più impegnativa, richiede più preparazione da parte di tutti, è un intervento a più voci».
Ma appunto le voci devono essere in sintonia, eseguire la stessa partitura. Ed è qui che, purtroppo, si stona. C?è probabilmente un aspetto organizzativo (non è semplice far lavorare assieme logiche differenti). Ma pure vi sono fattori culturali: «Non basta chiamarsi servizio pubblico, occorre essere preparati», incalza Griffini, «per accompagnare una famiglia all?accoglienza. E questo non è il mestiere di un consultorio, ma di un?associazione familiare. Purtroppo però ci sono gelosie da parte del pubblico che considera l?affido come una cosa propria, che non si fida delle associazioni. È un esempio di statalismo retrogrado: che senso ha impedire a delle forze sane, fresche, piene di entusiasmo di dare il loro contributo?».
Ciascuno poi dovrebbe mettere a disposizione ciò che sa fare, ricorda Camera: «In un percorso di affido ci sono degli aspetti, come ad esempio il radicamento nel territorio, che non sono semplici per il pubblico e che invece connotano l?esistenza di un?associazione».
Sarebbe insomma la mancanza di una piena integrazione fra i diversi soggetti coinvolti, uno dei motivi per cui l?affido in questi anni non è decollato (accanto ovviamente agli altri: l?assenza di una politica unitaria di sostegno, un deciso investimento in energie e risorse). Probabilmente servirebbe anche in questo caso lo strumento della concertazione: discutere, conoscersi, stabilire assieme delle strategie, nel rispetto dei ruoli, ma in nome di una autentica sussidiarietà.
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