Welfare

Malta, il capolinea degli uomini di nessuno

Il destino paradossale di 4mila rifugiati in "ostaggio" sull'isola

di Redazione

Sono costretti a vivere da anni sotto una tenda o in un hangar. Non hanno lavoro, non possono raggiungere
il continente europeo, e non possono neppure tornare indietro. Perché il Regolamento europeo così vuole…
da La Valletta
Quattromila rifugiati sono bloccati a Malta, alcuni anche da oltre cinque anni, senza lavoro, né possibilità di ricongiungersi con le proprie famiglie. Costretti a vivere in 22 sotto una tenda o tra le lamiere di un enorme hangar. Costretti a mettersi in fila, tre volte la settimana, come in un campo militare, per testimoniare la loro presenza e ottenere i 4 euro al giorno con i quali dovranno tirare avanti. I maltesi non li vogliono e continuano a verificarsi casi di minacce nei confronti di chiunque si occupi di loro. Il governo si affida a lenti programmi di reinserimento in altri Paesi, per smaltire l’esubero, sempre che l’accordo italo-libico continui a funzionare. Da tre mesi a questa parte gli sbarchi sono cessati. Ma ora la situazione è sempre più tesa nei sovraffollati “centri aperti” e rischia di degenerare da un momento all’altro. «Sono la vera emergenza», conferma Alexander Tortell, direttore dell’Awas, l’agenzia che si occupa del welfare dei richiedenti asilo, «dovrebbero essere strutture in grado di fornire un’assistenza temporanea, nell’attesa che gli immigrati trovino un lavoro a Malta o all’estero. Ma a volte ci vogliono anni».
Il regolamento europeo “Dublino II” impedisce ai questi quattromila rifugiati di lasciare l’isola. Perché è Malta, loro Paese di arrivo, a doversi fare carico dell’assistenza burocratica. E chi tenta di scappare illegalmente, per cercare lavoro in Italia o nel resto d’Europa, viene riportato sull’isola, dove può anche finire in galera. Per la maggior parte, somali o eritrei, è impossibile anche solo pensare di tornare in patria. Alcuni risultano apolidi. E trovare un lavoro a Malta è molto difficile.

L’HANGAR
La peggiore delle sistemazioni si chiama Hangar. Si trova ad Hal Far, nell’estremo sud-est dell’isola. Qui, lontano dagli occhi dei turisti e degli stessi maltesi, nell’area un tempo occupata da un aeroporto oggi dismesso, sono sorti i campi peggiori. All’Hangar vivono in 800, distribuiti fra una fila di otto container e un grande capannone di lamiera, buio e fatiscente. Una ex rimessa di aeroplani riadattata a gigantesco dormitorio, da circa un anno e mezzo. Fuori bivacchi ovunque, all’interno un odore insostenibile. I migranti, la maggior parte dei quali gode di una protezione umanitaria, si trovano costretti a dormire in un alveare di letti a castello, immersi nella polvere e nella sporcizia. Per cucinare utilizzano pericolosi fornelli da campo, mentre l’espletamento dei bisogni corporali è delegato a otto bagni chimici in tutto. Il governo sta costruendo nuovi servizi igienici e uno spazio per le cucine. Ma i lavori sono appena iniziati. Immagini che riportano alla mente quelle di Rosarno e degli accampamenti nella ex cartiera di San Ferdinando e Rizziconi.
La situazione precipita nel Tent Village, una vera e propria tendopoli, aperta nel 2006, ma aumentata di estensione a causa dei nuovi arrivi. Oggi gli ospiti sono circa 800, 22 per tenda. Ci sono solo dieci docce e dieci turche, traboccanti di liquami. Frequenti i casi di dissenteria e scabbia, mentre sempre più numerosi sono i problemi di salute mentale. E la promiscuità tra uomini e donne rende abituali i casi di violenza e stupro.
Ognuno percepisce dallo Stato 130 euro mensili di sussidio, con cui tirare avanti. Ma dai campi è meglio non allontanarsi troppo. Ogni lunedì, mercoledì e venerdì si è costretti a mettersi in fila indiana per apporre una firma che attesti la presenza nel campo. Chi non c’è, si vede decurtato il vitalizio di 10 euro. Per chi tenta di scappare da Malta, o vi è riportato a forza, la tassa è di 50 euro. «È una prassi che lede la dignità umana», confessa padre Joseph Cassar, del Jesuit Refugee Service di Malta. «Stiamo registrando sempre più casi di problemi psicologici. La situazione va monitorata, per evitare che degeneri in futuro». In passato i gesuiti si occupavano esclusivamente dei migranti detenuti nei detention centre. Ma ora l’emergenza è fuori dalle sbarre. E spesso, chi si trova ancora in cella, neppure lo sa.

LA DETENZIONE
A Ta’ Kandja vivono recluse 48 persone: 13 uomini e giovani donne il resto. Il centro di detenzione si sviluppa lungo una fila di palazzine basse, a un solo piano, tirate su a tufi, com’è d’uso a Malta. Quando arriviamo, attorno alle 10, i ragazzi ci aspettano già nell’androne del loro blocco. Sono tra gli ultimi arrivati nell’arcipelago-Stato, lo scorso 6 ottobre. Sbarcarono in 106, 86 uomini e 20 donne, a bordo di un barcone che, oltre al naufragio in mare, è riuscito a sfuggire anche ai respingimenti. Sono “fortunati”, ma non lo sanno. È probabile che saranno gli ultimi inquilini di quelle celle, prima di tornare in libertà. Per loro, tuttavia, la parola libertà significherà dormire all’Hangar o nel Tent Village, a tempo indeterminato e senza lavoro.
Uno dei detenuti è stato in Libia, a Garabulli, in una delle prigioni di Gheddafi. È un eritreo, sui trent’anni. Racconta di torture subite ogni notte, anche con l’ausilio di cavi elettrici. Conferma che molte donne hanno subìto violenza sessuale da parte dei militari libici. Quando gli chiediamo se sa qualcosa dei respingimenti, dell’agreement tra Italia e Libia, scuote il capo. Non sa di essere uno degli ultimi “fortunati”, non sa cosa lo attende fuori. Volti bassi, sguardi che tentano di esprimere un disagio, mentre il poliziotto che ci accompagna, Mike, decanta l’integrazione e la pulizia all’interno del campo. In effetti le stanze sono tirate a lucido, c’è la televisione, ma l’impressione è che ci sia qualcosa di artefatto.
Ta’ Kandja è il detention centre gioiello di Malta, quello che più spesso viene fatto visitare ai giornalisti, da quando, a metà del 2008, sono stati autorizzati dal governo della Valletta. Nei restanti due campi, quello di Lyster Barracks e quello di Safi Barracks, gestiti dall’esercito, la situazione è sensibilmente diversa. Tanto che, in entrambi, sono scoppiate rivolte, all’inizio dello scorso anno.
In alcuni centri sono ammesse solo quattro ore d’aria alla settimana. Non c’è riscaldamento, l’acqua arriva direttamente dal Mediterraneo con i dissalatori e il cibo è sempre lo stesso. Fino allo scorso anno quella maltese era considerata un’anomalia. Oggi è la regola, dopo la discussa direttiva della Commissione europea entrata in vigore all’inizio del 2009. La cosiddetta “direttiva della vergogna”. In ogni caso il problema sembra ormai alle spalle.

I RESPINGIMENTI
Il cordone voluto e finanziato dall’Italia, gestito dalla motovedette del colonnello Gheddafi, ha portato i frutti sperati da Palazzo Chigi. Il leader libico, peraltro, è atteso a La Valletta il mese prossimo, con l’intenzione di stipulare anche con il governo maltese un accordo simile a quello stretto con Berlusconi. Anche se la muraglia di Tripoli a volte può essere aggirata: il 24 gennaio, una barca con 25 immigrati tunisini è attraccata a Lampedusa, a tre mesi dall’ultimo arrivo. A Malta, invece, gli sbarchi si sono fermati. Gennaio 2010 segna zero arrivi, a fronte dei circa 1.500 del 2009 e dei 2.275 del 2008. Ora quella stagione sembra essere terminata.
Ma l’emergenza non è finita. Questi uomini dovranno tirare avanti qui, in trappola ma “liberi”. Aspettando Godot. Come in una commedia dell’assurdo.

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