Non profit
meno pietismi. il socialebvuole più mercato
oltre la crisi Perché il non profit ha una grande chance
di Redazione
Favorire l’afflusso di capitali verso le imprese che fanno coesione e rispondono ai bisogni. È il vero modo di uscire dalla conservazione, ideologica ed economica D ice Linda Lanzillotta che occorre «rispondere alla paura con il coraggio del cambiamento e su questo terreno sfidare i conservatori» ( Il riformista , 20 novembre). Il “coraggio del cambiamento” per me (promuovo, con le Camere di commercio, una rete nazionale a sostegno dell’economia civile), oggi, in piena globalizzazione dei mercati e sotto l’urto della crisi, vuol dire interrogarsi anche sul ruolo e i limiti dell’impresa che per sua natura tende a massimizzare il profitto.
Ma la logica della massimizzazione del profitto (ispirata dalla teoria economica più accreditata) non è in grado di intervenire a risolvere problemi di utilità collettiva per i quali non esistono margini economicamente interessanti sotto il profilo della redditività degli investimenti. L’azione correttrice di questi squilibri da parte dei “conservatori” è quella di destinare risorse in soccorso dei meno abbienti (si tratta di un’azione Robin Hood), azione che è sostanzialmente assistenziale.
Dove equivoca Tremonti
Nel suo libro La paura e la speranza chiarisce Giulio Tremonti: «Questa compagine di volontari costituisce il cosiddetto “terzo settore”. Un settore che dà moltissimo e riceve pochissimo? diamogli di più perché non sarebbe un costo, ma un investimento». Tremonti, cioè, intuisce che c’è una nuova via, ma è ancora pervaso da cultura assistenzialistica di stampo mecenatistico. Tutto ciò è apparso chiaro anche quando nel recente intervento all’università Cattolica di Milano ha detto: «Si aprirà lo spazio di un’economia sociale di mercato attraverso la legge, con l’introduzione di un ordine, di una disciplina, di valori morali».
Occorre qui inserire la nostra riflessione e proseguire e specificare per dire che il coraggio del cambiamento è quello di considerare che in Italia tra volontariato sociale (75 milioni di giornate annue di impegno gratuito) e associazionismo sociale, eliminate le duplicazioni, si hanno poco meno di 12 milioni di persone impegnate in vario modo nel sociale e comunque associate (cioè una ogni quattro cittadini adulti). Il terzo settore (l’economia civile o sociale) che ha già realizzato il 3,5% dell’occupazione, quasi il 2% del valore aggiunto, oltre il 5% della domanda di nuova occupazione qualificata (e se si considerassero anche le cooperative mutualistiche avremmo quasi l’11% dell’occupazione complessiva).
Siamo cioè in presenza di un laboratorio sociale che crea imprenditorialità sociale, migliora la qualità della vita e la relazionalità; produce capitale sociale, coesione sociale, solidarietà.
Ma se da Tremonti passiamo a Muhammad Yunus scopriamo (lo scrive in Un mondo senza povertà , Feltrinelli 2008) che ci sono due forme possibili di imprese con finalità sociali. La prima è l’impresa che pone al centro della propria azione il conseguimento di obiettivi sociali (produce ricchezza e reinveste tutti gli utili). La seconda tipologia di impresa è orientata al profitto ma pone alla proprietà persone povere le quali ricevono i dividendi e gli incrementi della capitalizzazione per migliorare la redditività personale.
Va poi sottolineato con forza, insieme con Yunus, il concetto di mercato sociale che è un mercato di interesse collettivo sul quale non dovrebbe essere consentito di produrre utili per i privati. Occorrerebbe favorire la concorrenza tra imprese sociali che dovrebbero così garantire efficienza economica e qualità sociale (attenzione agli utenti e politica dei prezzi). Un mercato sociale appare, per esempio, quello dei servizi erogati dalle società municipalizzate che costituiscono un punto su cui riflettere per impegnare imprenditorialità sociale (Unioncamere ha censito, nel 2007, 4.874 società di capitali partecipate da enti locali).
Una borsa sociale
Inoltre, come dice ancora Yunus , occorre dar vita ad una Borsa sociale (proposta rilanciata da Stefano Zamagni al seminario di Bertinoro) per favorire coloro che vogliono sostenere coi propri capitali investimenti nelle imprese sociali.
Occorre veramente il «coraggio del cambiamento» e dire chiaro e forte che alla crisi si risponde anche valorizzando e introducendo nuovi strumenti per utilizzare l’imprenditorialità sociale con finalità collettiva e senza scopo di lucro.
Quando i fini dell’imprenditorialità sono le esigenze dell’utilità collettiva (del bene comune) dobbiamo puntare con convinzione sullo strumento impresa sociale (da costituire rapidamente) e dobbiamo gestire un processo che non sarà né facile, né scontato , ma che comunque deve condurci ad aderire alla domanda potenziale di un cittadino su quattro; alla domanda di essere imprenditori per la collettività; alla domanda di maggiore qualità della vita.
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