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Mi piace così: migrante e senza nome

Franco Bomprezzi e Sant'Antonio da Padova: «Ho provato un istante magnifico di pace»

di Redazione

Ognuno di noi, in qualche momento della vita, cerca dentro di sé la santità. Ossia quel legame diretto con il divino, quella richiesta, carica di ansia, che rivolgiamo in alto, negli istanti più duri e inesplicabili della nostra esistenza, sperando di ricevere, noi soli – proprio noi – direttamente quel segnale capace di illuminare il percorso, rischiarare e indicare la strada, spiegare l’insondabile mistero del destino che ci sta interrogando e che, a volte, rovista l’anima. In quel momento vorremmo essere santi, e non lo siamo. Il legame diretto con la divinità, o con l’universo, ha bisogno allora di una mediazione meno drammatica, più accettabile e dolce. Ha bisogno della certezza di un esempio possibile, concreto, reso storico dal racconto di altri, reso carne dalla storia. Ecco allora che i santi rappresentano un rifugio che ci impedisce di cedere al dubbio, all’angoscia del “perché proprio a me”. Li adottiamo non solo per devozione, ma per trovare una risposta umana, una mediazione possibile fra noi e l’eterno. È ciò che ho pensato, poche settimane fa, appoggiando la mia mano sulla pietra levigata e resa tiepida da milioni di altre mani, tornando alla Basilica del Santo, quel santo senza nome, Antonio da Padova, anzi da Lisbona, migrante dell’anima e della fede, capace di unire le speranze, le certezze, i dubbi. E ho provato un istante magnifico di pace.

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