“Non siamo la Confindustria” precisa il Portavoce del Forum del terzo settore Andrea Olivero, commentanto il titolo di un articolo pubblicato domenica scorsa dal Corriere della Sera e intitolato, appunto, “Sì alla Confindustria del sociale“. Un pezzo tutto dedicato alla voglia di dar vita a una (nuova) rappresentanza (unitaria) del terzo settore. Dal punto di vista comunicativo il titolo del Corriere non era male, attirava l’attenzione e forse non occorreva precisare. Ma tant’è, l’occasione è buona per un confronto sui modelli di rappresentanza; un ambito che dopo decenni di immobilismo da guerra fredda sta evolvendo in modalità relativamente nuove: rete imprese italia, alleanza delle cooperative italiane, forum delle associazioni cattoliche del lavoro, ecc. Paradossalmente c’è il rischio che l’ultimo venuto nell’agone delle parti sociali vecchio stile – il terzo settore – venga spiazzato dai mutamenti, anche solo per mero restyling, delle rappresentanze dei soggetti tradizionali: associazioni datoriali, sindacati dei lavoratori, reti di soggetti pubblici. A queste vanno aggiunte le sollecitazioni provenienti dalla base del movimento, ad esempio le reti di agricoltura sociale, i network dei gruppi di acquisto solidale, ecc. Quale rappresentanza dunque per il terzo settore? Se si dice no a Confindustria significa che si rinuncia alla lobby sui decisori politici e, in misura minore, ai servizi reali a supporto degli associati. Due funzioni classiche della rappresentanza e che oggi, come testimonia la stessa Confindustria, sono in crisi. Rimane, come afferma lo stesso Olivero, il modello di rappresentanza come capacità di progetto, cercando a tal fine di integrare vocazioni e competenze diverse. Insomma un Forum che agisce quasi come un’Agenzia di sviluppo sostenendo tutti quegli attori in grado di contribuire alla produzione di una particolare categoria di beni: quelli comuni. Una missione davvero impegnativa dalla quale derivano alcune importanti conseguenze: meglio agire localmente (e quindi un Forum nazionale a servizio dei locali, in buona parte ancora da costruire); meglio riconoscere le differenze interne (demarcando con chiarezza, ad esempio, la distinzione tra terzo settore produttivo e di adovocacy); meglio fare questo tipo di rappresentanza con qualcun altro (ad esempio le reti di PMI che, in alcune parti, sono interessati a sostenere una relazione con il terzo settore per la rifondazione dei sistemi di welfare). Chissà come andrà a finire. Forse anche Confindustria può insegnare qualcosa.
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