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Mugabe, il grandedissipatore Aveva tra le mani uno dei pochi Paesi africani con un sistemainfrastrutturale efficiente. E ricchissimo di materie prime.Ma la sua sete di potere l’ha portato alla rovina di Giulio Albanese
zimbabwe Ritratto del leader di una nazione in bilico
di Redazione

L’ottuagenario presidente Robert Mugabe, com’è noto, non vuole saperne di andare in pensione, al punto tale che nello Zimbabwe, come anche all’estero, sta crescendo a dismisura il numero dei suoi detrattori, di coloro cioè che lo vedono come il fumo negli occhi. In effetti stiamo parlando di una delle figure più controverse della storia moderna africana: Padre della Patria, eroe nazionale nella lotta di liberazione contro il colonialismo dell’ex Rhodesia, ha poi praticamente buttato tutto alle ortiche realizzando una riforma agraria attuata con modalità coercitive, attraverso la formula riprovevole delle occupazioni fondiarie da parte dei “veterans”, frange estremiste legate al suo partito.
Eppure, quando il 18 aprile 1980 venne proclamata ufficialmente la Repubblica dello Zimbabwe, questo signore, con una vocazione dichiaratamente socialisteggiante, aveva tra le mani un autentico gioiello con un sistema infrastrutturale che nell’Africa di allora faceva davvero invidia. Basti pensare alla gigantesca diga sul fiume Zambesi che, oltre a coprire ampiamente il fabbisogno nazionale, riforniva d’energia elettrica i Paesi limitrofi. Per non parlare delle vie di comunicazione stradali e ferroviarie o del comparto agricolo diversificato capace di produrre sia frutta tropicale come anche quella dei climi temperati. E cosa dire del sottosuolo ricco di minerali pregiati quali ad esempio l’oro e il platino?
Per carità, era innegabile l’esigenza di mettere a punto una riforma fondiaria, non foss’altro perché gran parte dei proventi finivano nelle mani della vecchia nomenclatura coloniale; dunque s’imponeva la questione di un’equa redistribuzione delle terre. La verità però è che Mugabe avrebbe potuto giocarsi la partita diversamente, tutelando i legittimi interessi della nazione con gli strumenti del diritto e non della prevaricazione. In effetti la comunità internazionale tentò di venirgli incontro invitandolo alla moderazione: la prima nel settembre 1998, a seguito della conferenza internazionale di Harare, e la seconda, quattro anni dopo, nel settembre 2002, sulla base del cosiddetto “Accordo di Abuja”.
Sta di fatto che la sete insaziabile di potere da parte di Mugabe ha alimentato il suo convincimento personale ad usare la forza, paralizzando ogni forma di produzione e redditività. E così ha ridotto alla povertà assoluta i quattro quinti della popolazione. Ha addirittura polverizzato il reddito nominale pro capite, che ormai è un decimo di quello che il Paese poteva vantare negli anni 90.
Il caso Zimbabwe è sintomatico di quei regimi che tendono a ridurre considerevolmente o addirittura a eliminare del tutto il pluralismo politico, soffocando le istanze di rinnovamento gridate a squarciagola dalla società civile. Il “presidente padrone” dello Zimbabwe, pur dovendo fare i conti con oppositori politici o dissidenti di tutto rispetto, non vuole proprio saperne di mollare lo scettro.
È difficile fare previsioni sul futuro scenario di questo Paese che ha fame e sete di democrazia. È comunque doveroso attribuire proprio alla parola democrazia, «la cui storia», parafrasando il grande Walt Whitman, «non è ancora stata scritta, perché deve ancora essere messa in atto», un significato estendibile anche ad altre realtà del cosiddetto “villaggio globale”. Infatti il ragionamento di cui sopra non vale solo per Mugabe, ma anche per quei governi, a qualsiasi latitudine essi si trovino, che considerano l’agenda politica internazionale finalizzata all’esclusiva tutela dei loro interessi di parte, prescindendo dal bene comune dei popoli.
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